Tra i buoni motivi per mandare a casa il governo c’è Mussi
02 Gennaio 2008
Ci sono almeno due ottimi motivi per cui spero che l’attuale governo in
carica venga sostituito nel più breve tempo possibile (e tralascio tutti gli
altri, politica estera in primis). Da impiegato dello stato, lo
stipendio di dicembre, completo di tredicesima, mi ha spinto a fare una
verifica all’indietro sulla mia busta paga dal momento dell’entrata in vigore
dell’euro, cioè dal 2002. Ebbene, valutando in 100 la mia busta paga media del
1992, ho scoperto di avere guadagnato appena di meno nel 2003 e nel 2004 (96 e
99), appena di più nel 2006 (112), e una cifra praticamente uguale nel 2005 e
2007 (101). Insomma, introito oggi esattamente quello che introitavo sei anni
fa. Peccato che nel frattempo l’inflazione sia andata al galoppo e che l’euro
abbia praticamente dimezzato, o giù di lì, il valore dei miei soldi. Non sono
né un economista né un fiscalista, e quindi, come credo la maggior parte degli
impiegati dello stato, non riesco bene a capire i meccanismi dei prelievi alla
fonte, siano essi fiscali o di altra natura. Ma la realtà del depauperamento
continuo e crescente della mia unica fonte di entrata, lo stipendio mensile (le
altre entrate, quando ci sono, sono minime), sono perfettamente in grado di
giudicarla. Aggiungo, per la cronaca, che per mia fortuna non sono l’ultimo dei
postelegrafonici, trovandomi a essere un professore ordinario che è entrato
nell’università con un ruolo docente nel 1975 (trentadue anni fa) e che non ha
mai smesso di far ricerca e di pubblicare. L’ultimo dei postelegrafonici,
appunto, sta certamente molto peggio di me.
Da professore universitario, poi, non vedo l’ora che il Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica passi in altre mani. I proclami del ministro Fabio Mussi
vanno infatti sempre in direzione opposta a quelli del buon senso. Laddove il
mondo occidentale, almeno quello che è leader nella ricerca e nello sviluppo,
conferma o si muove verso la liberalizzazione della ricerca e
dell’insegnamento, da noi tutti i provvedimenti annunciati (e dati sempre per
imminenti, salvo impantanarsi sempre nelle sabbie mobili della veti incrociati)
vanno nel senso dell’iperburocratizzazione e dell’iperregolamentazione. E naturalmente tralascio in quest’occasione
di mettere l’accento sul fatto che il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) è
stato per mesi senza presidente, e che per bloccare lo sciopero dei conducenti
dei TIR il governo guidato da Romano Prodi non abbia trovato di meglio che
prendere i soldi dalle tasche dei ricercatori. (Se non era d’accordo, il
ministro Mussi avrebbe dovuto dimettersi immediatamente, e non lo ha fatto).
Ma ecco i due ultimi esempi della conduzione Mussi. Avete letto il
regolamento del previsto maxiconcorso per i ricercatori universitari, emanato
dal ministro il 7 dicembre? Dieci articoli pesantissimi, in cui si parla di
termini “perentori”, di due tornate di concorsi all’anno (come se non
sapessimo che fine hanno sempre fatto in passato queste declamazioni a perdere
sulla perentorietà e sulla cadenzarietà); in cui si metta in piedi un
meccanismo imperniato su una commissione giudicatrice nominata da ogni singolo
Ateneo, composta di sei membri nominati dal Senato Accademico, di cui tre di
altre università, le quali valutano sulla base del solito complesso di
“titoli preferenziali” (con indicazione delle percentuali minime e
massime), più i giudizi di “sei esperti revisori” esterni, di cui
alcuni individuati mediante sorteggio, nonché una “prova seminariale
pubblica”. Niente di diverso, nella sostanza, dai soliti vecchi
concorsi-carrozzone, rigidamente nazionali, in cui sono stati e saranno ancora
una volta le lobby politicamente più forti a imporre alle varie sedi locali i
loro candidati. La filosofia di fondo
non muta di un millimetro: il Ministero e i suoi dirigenti sono i soli garanti
della legalità nonché della scienza; meno fiducia si dà agli amministratori
degli atenei e agli uomini di scienza che vi operano, meglio è.
E poi, avete sentito il discorso che il ministro Mussi ha fatto il 13
dicembre di fronte alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane
(CRUI)? Al di là delle belle parole sulle “logiche [e] e dinamiche
premiali” (ma quale burocrate si inventa questi termini?) e sugli
“iter rapidissimi”, il ministro proclama di voler “rilanciare
l’autonomia” delle università “consentendo … la partenza di
sperimentazioni in sintonia con le migliori pratiche a livello europeo” e
riformandone la governance. E poi cosa fa? Invece di lasciare che ogni
Ateneo faccia come gli pare, dimostrando finalmente fiducia nel corpo docente e
nei suoi amministratori, chiede a tutti gli atenei d’Italia di “provvedere
entro il termine di un anno alla revisione della struttura dei loro organi di
governo”, modificando tutti gli statuti per uniformare, a livello
nazionale, “rettore, senato accademico, consiglio di amministrazione, …
un organismo rappresentativo del territorio che svolge funzioni di consulenza
del rettore e del senato accademico”. Nella stessa logica, il Ministro
obbliga inoltre tutti gli atenei a “stabilire secondo principi di
economicità e sussidiarietà la denominazione e i compiti delle strutture di
coordinamento per aree scientifiche e didattiche, e inoltre le strutture amministrative”.
Nella concezione del Ministro, dunque, forse gli Atenei possono decidere
autonomamente a che ora aprire la biblioteca, a chi dedicare l’aula magna, o quanti distributori
di acqua minerale mettere nell’entrata, ma ben poco d’altro.
Insomma, come impiegato
dello stato e come professore universitario e ricercatore spero proprio che
l’anno nuovo mi porti un nuovo governo. Un governo mi faccia restare più soldi
in tasca, e che mi consenta di svolgere, con autonomia e professionalità, il
mio ruolo di ricercatore e di docente. Da quello che c’è non mi aspetto più
niente di buono. Il prossimo lo giudicheremo dai fatti.