Tra Iraq e Vietnam il vero confronto è di tipo militare

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Tra Iraq e Vietnam il vero confronto è di tipo militare

Tra Iraq e Vietnam il vero confronto è di tipo militare

27 Ottobre 2007

Finalmente un dibattito sulla guerra in Iraq all’interno di un giornale del centro destra. Tra chi non ha mai messo in discussione né la legittimità, né la moralità dell’intervento americano. Era ora! Non posso altro che salutare con entusiasmo questo confronto di posizioni iniziato da Carlo Panella a cui ora si aggiunge Alia K. Nardini con l’articolo “Nessun paragone tra Vietnam e Iraq”.

Prima di entrare nel merito della tesi dell’autrice, vorrei ricordare alcuni punti, anche se possono sembrare ovvi, per evitare qualsiasi equivoco sul tema della discussione. Provo a sintetizzare: 1) per vincere una guerra non è sufficiente disporre della forza della ragione fattore che a poco a che fare con la forza delle armi; 2) per vincere una guerra di contro insorgenza, come quella che si sta combattendo in Iraq, non basta nemmeno vincere militarmente, e qui entra il confronto con il Vietnam: si può sconfiggere sul campo l’avversario, ma perdere lo stesso la guerra, e quindi è sempre più necessaria la politica, la grande politica, quella vera dei Churchill e dei De Gaulle; 3) questo ultimo punto della strategia della contro insorgenza (COIN) ancora non è stato né del tutto chiarito, né ha tanto meno ha ottenuto una teorizzazione chiara, se non definitiva, cioè non esiste una strategia affermata per affrontare le insorgenze; 4) stante la legittimità e la necessità di rovesciare Saddam, questo tipo di guerra, questo tipo di utilizzo della forza era l’unico? Non era possibile impiegare altri mezzi, strategie ecc.? 5) quanto ha influito la scelta ideologico-filosofica idealista di esportare la democrazia sulle altre decisioni strategiche? Ed era necessaria? O non è risultata piuttosto controproducente? 6) questione che ci rimanda alla comprensione di quale fossero gli obiettivi della guerra e quale la loro priorità. Le armi di distruzione di massa? La deposizione di Saddam? L’esportazione della democrazia? Garantire una presenza americana in Medio Oriente? Scardinare lo status quo di quella regione? Circondare l’Iran? Perché se non si riesce a rispondere a questi quesiti è difficile capire se gli Stati Uniti avrebbero potuto agire diversamente; 7) se non si affrontano le questioni sollevate qui sopra, risulta impossibile trovare una risposta alla domanda centrale: che cosa devono fare adesso gli Stati Uniti?

Come si vede si tratta di molti problemi, di non semplice soluzione e che perciò stentano ad affermarsi nella discussione, ma in questa direzione andava il confronto tra Carlo Panella ed il mio scritto; fornire una tessera – la questione teorica del nation building e della strategia COIN – di un puzzle – la questione storico-politica della guerra in Iraq – a mo’ di riflessione che sto cercando di chiarire da un po’ di tempo. Problemi angosciosi perché qui si discute di come affrontare stati falliti o criminali che armano il terrorismo, dispongono di armi di distruzione di massa e di vite umane, di civili innocenti, di giovani mandati a morire e diventa urgente, con le forze di cui disponiamo, provare a trovare delle risposte sul piano della teoria politica e della strategia militare. Impegno che considero anche doveroso sul piano della mia responsabilità morale dato che sulla decisione di appoggiare gli Stati Uniti nella guerra contro Saddam ho rotto definitivamente con il centro sinistra anche riformista.

Tornando al nostro argomento. Polemizzando, in modo pacato e gentile, con Panella e il mio articolo “L’Iraq è un fallimento politico prima che militare”, l’autrice sostiene, rifacendosi alle tesi di Christopher Hitchens, che il paragone tra la guerra in Iraq e quella del Vietnam, sorto alla discussione pubblica per lo meno dall’articolo di Stephen Biddle “Seeing Baghdad, Thinking Saigon” (su Foreign Affairs del marzo-aprile 2006) è improprio per i seguenti motivi. Il Vietnam non costituiva un pericolo per il mondo, mentre Saddam sì; in secondo luogo, i modi di combattere degli Stati Uniti, lo ius in bello, in Vietnam erano volti alla distruzione totale del nemico, alla guerra indiscriminata (la famigerata search and destroy) mentre ben diversa è l’attenzione ai civili nella guerra in Iraq; la guerra dei vietnamiti era tra un Nord comunista alleato con i partigiani vietcong contro il governo di Saigon che voleva rimanere filo occidentale, mentre questa partizione del paese in Iraq è completamente assente; in ultimo, mentre in Vietnam gli americani non poterono ricorrere alle elezioni, che sicuramente avrebbero consegnato il paese in mano ai comunisti, in Iraq sono stati gli stessi americani a promuovere le elezioni.

Queste osservazioni sono tutte vere sul piano storico, impossibili quindi da contestare. In un articolo su Ragionpolitica del 14 giugno 2006 dal titolo emblematico “L’Iraq non è il Vietnam” anch’io ho sostenuto la stessa tesi, con argomenti simili e altri, tra cui il fatto non secondario che essa avveniva durante la guerra fredda. Non solo. La sostengo anche adesso, cioè affermo che molte sono le differenze storiche tra i due conflitti, e sono anche d’accordo con le note di Nardini-Hitchens.

Mi sembra però che il centro del problema oggi non riguardi più la congruenza dei paragoni storici, ma la caratteristica delle guerre COIN, su come cioè vincerle nel più breve tempo e con il minor numero di perdite possibili, magari evitando di combatterle, e sulla possibilità e modalità del nation building. In altri termini, quello che occupa la mia riflessione – per lo meno come intenzione, non so dire dei risultati – riguarda le condizioni morfologiche che rendono possibile la vittoria di una guerra di contro insorgenza. Qui si innesta il confronto con il Vietnam, ma anche con tutte le guerre asimmetriche combattute dopo la Seconda guerra mondiale, dall’Algeria al Salvador.

La scopo è di riuscire ad afferrare gli elementi puri strutturali, le categorie kantiane, lo scheletro – scegliete voi i termini che più riconoscete – che formano il discorso della guerra asimmetrica per andare a costruire un quadro d’insieme coerente; elementi che di volta in volta si devono rivestire di carne, di storia, devono insomma calarsi nella situazione specifica. Perché sembra strano, ma in più  di cinquanta anni di small wars, come le chiamano gli anglosassoni, manca un pensiero strategico all’altezza del compito. Anzi, tutte le volte che un paese occidentale si trova a combatterne una, sembra sempre la prima volta.

La domanda di Panella, a cui non si può scappare, è perciò fondamentale. Perché, nonostante i successi militari, gli americani in Vietnam hanno perso? Dove sta il mostro che divora la vittoria militare e quindi le condizioni per una pace che favorisca i processi democratici? Questa è la domanda a cui urge dare una risposta ed è tanto attuale che occupa le pagine di riviste prestigiose come Commentary%3C/em>. E Carlo ha provato a dare una risposta argomentata: gli Stati Uniti sono stati sconfitti da Ho Chi Minh per non aver appoggiato una terza forza democratica né corrotta né comunista che pure c’era. Risposta interessante e in parte valida, secondo me incompleta, per ciò sono intervenuto, ma è questa la strada da percorrere.

Riguardo al nation building. Non mi sto a ripetere. In accordo ai realisti, da Scruton a Nathan Blazer a Harry Jaffa (ma anche con le tesi di Benedetto XVI e del cardinale Scola sulla modernità sviluppate in contesti completamente diversi), un percorso democratico è possibile solo dopo che si siano realizzate alcune precondizioni. Innanzitutto nel paese in questione vi deve essere una èlite a favore della democrazia; lo stato di diritto, inoltre, si deve essere affermato, cioè deve essere stato superato il livello settario degli scontri religiosi, le parti insomma devono concordare su un set di valori comuni superando quello stato di natura descritto da Hobbes all’epoca delle guerre di religione in Europa o, come dice Carl Schmitt, il conflitto morale deve essere neutralizzato. A queste si devono aggiungere altre condizioni fattuali che riguardano la realtà esterna al paese oggetto di democratizzazione, dal consenso internazionale, alla benevolenza degli stati confinanti, compresa la questione della sicurezza dei confini.

Il ricorso della Nardini all’esempio del successo dell’esportazione della democrazia dopo la seconda guerra mondiale nei tre paesi sconfitti mi sembra del tutto fuorviante per alcuni motivi centrali. In quei casi era avvenuta una sconfitta militare totale, un collasso morale economico e sociale del nemico indiscutibile; gli alleati disponevano di tutto il potere da quello hard a quello light; vi erano delle èlite preparate e sinceramente democratiche all’interno di quei paesi; un contesto internazionale a favore a causa della nascente minaccia sovietica e dulcis in fundo, gli americani avevano elaborato una strategia completa ed articolata per la gestione del dopoguerra. Aiuti economici, istituzioni universali, alleanze militari, Piano Marshall, ONU, FMI, WTO, Banca Mondiale; NATO. Insomma, la scelta era chiara: accettare la democrazia, il capitalismo, lo sviluppo economico, una sicurezza militare, un’alleanza benevolente o ricadere in un’altra dittatura, per di più che non assicurava nessun livello di benessere decente e senza Hollywood.

Quindi qui abbiamo due elementi che si presentano con regolarità; come tutte le leggi sociali, non è detto che si diano sempre, ma insomma è qualcosa: le operazioni di ingegneria sociale vanno maneggiate con cura, come sapeva Burke, e, in secondo luogo, la guerra di COIN si può perdere anche se sul piano militare è vinta. Ve ne sono altri che già si sanno. Ne elenco alcuni in ordine sparso. La centralità della politica rispetto alla questione militare; l’importanza della conquista dei “cuori e menti” del paese occupato; quale sia il centro di gravità del paese che conduce la guerra di contro insorgenza, cioè la pubblica opinione; il ruolo dei mass media; l’importanza del fattore tempo tra i belligeranti e la differente capacità di sopportazione; la forza del governo locale; il consenso internazionale alla guerra; il ruolo dei paesi confinanti e la relativa questione della sicurezza delle frontiere; la lentezza da parte delle forze COIN nella comprensione sia politica che militare della stessa insorgenza, delle sue peculiarità e, in seguito, il ritardo nell’impiego dei mezzi necessari, eccetera.

%3Cp>Per questi motivi, anche se ne sono molto contento, non mi entusiasmo dei successi militari di Petraeus. Sinceramente dopo quattro anni di guerre, decine di migliaia di morti – se non centinaia – milioni di sfollati e rifugiati, ancora mi sembra poco e purtroppo motivo non sufficiente per sentirsi tranquilli. Ancora manca la politica.