Tra lo Stato e la Chiesa c’è molto di più di una contesa tra laicità e religione

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Tra lo Stato e la Chiesa c’è molto di più di una contesa tra laicità e religione

11 Ottobre 2009

Chiesa e Stato in Italia dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984) è un grande libro di storia. Questo è il punto di partenza dal quale muovere per introdurre qualche riflessione sul volume che Roberto Pertici ha pubblicato per i tipi de Il Mulino, nella collana dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica. La precisazione, che può suonare superflua, è invece importante perché permette di sgomberare il campo da qualsiasi semplificazione giornalistica o speculazione legata alla polemica politica quotidiana.

In che senso bisogna intendere la definizione di “libro di storia”? Perlomeno da un duplice punto di vista. Innanzitutto per la struttura metodologica e per l’uso delle fonti, sia primarie che secondarie, che il volume presenta al lettore. E già da questo punto di vista l’opera si eleva da quell’utilizzo erudito e pedissequo che di queste spesso si fa nella storiografia nazionale. Pertici non ha bisogno di mostrare la sua conoscenza storiografica, dunque ogni nota e ogni rimando bibliografico aggiungono qualcosa alla narrazione, specificano e ampliano il discorso. Per questo motivo il testo oltre ad essere contenutisticamente rilevante può considerarsi una sorta di “manuale” metodologico al quale dovrebbero guardare i giovani studiosi che si affacciano timidamente al difficile mestiere di storico.

In secondo luogo Pertici ha scritto un “vero libro di storia” perché non muove da punti di vista preconcetti e si mantiene lontano dal rischio nel quale troppo spesso incorre anche la più titolata storiografia, quello di costruire un libro a tesi. E il merito è doppio dato che la materia trattata, settanta anni di rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, avrebbe potuto prestarsi facilmente ad un’operazione del genere. Invece l’autore ha offerto con questo libro una definizione chiara e quasi idealtipica di quello che dovrebbe essere il compito dello storico: descrivere il passato, interpretarlo alla luce delle fonti e della storiografia qualificata e inserirne lo sviluppo all’interno del più complessivo e vasto intreccio delle interazioni umane, delle dinamiche politiche, economiche e sociali. Con quel disincanto e quel distacco di chi, in maniera consapevole, decide di porsi dietro al “velo di ignoranza” delle passioni quotidiane, ma che altrettanto consapevolmente è conscio che oggi come ieri proprio queste passioni costituiscono un tassello imprescindibile per rendere il lavoro dello storico vivo, ma ugualmente, se non correttamente controllate, possono finire per stravolgerlo ed inquinarne il valore scientifico.

Tra i tanti passaggi che meriterebbero una riflessione attenta mi soffermerò in modo particolare su quattro.

Il primo riguarda un decisivo momento storico, poco conosciuto dal grande pubblico, che risale al giugno del 1919. Si tratta dei colloqui parigini (a margine della Conferenza di pace al termine della Prima guerra mondiale) tra l’allora Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e l’emissario vaticano mons. Cerretti nel corso dei quali, per la prima volta, Stato italiano e Chiesa sembrano aver superato la visione assiomatica post-unitaria ed ipotizzano l’avvio di un percorso per mettere mano alla Legge delle guarentigie del 1871. I colloqui sono decisivi perché da un lato mostrano quanto sia peculiare (e unico nel suo genere) il rapporto tra Santa Sede e Stato italiano. Per questo motivo è una semplificazione eccessiva quella di ridurre il dibattito di oltre un secolo alla contesa tra laicità e religione, magari utile per descrivere il caso francese, ma non di certo quello italiano. Gli incontri di Parigi sono poi anche decisivi per sfatare l’immagine di Mussolini come “uomo della provvidenza” che giunge a risolvere tutti i problemi della Chiesa con i Patti Lateranensi del 1929. Se si accetta che anche una parte consistente della classe politica liberale nel post Prima guerra mondiale aveva cominciato a maturare la convinzione della necessità di mettere mano all’ “anomalia” dei rapporti tra Stato e Chiesa e si aggiunge che la Chiesa era pronta ad uscire dal suo “splendido isolamento”, è possibile comprendere il vero significato dei Patti del 1929.

Questo è il secondo passaggio in cui il libro di Pertici è illuminante. L’autore, infatti, mostra quanto “politico” sia l’obiettivo di entrambi i protagonisti. Da un lato Mussolini, impegnato nella creazione di un regime progressivamente totalitario, ha compreso quanto sia determinante “anestetizzare” la questione cattolica. Ma ciò che maggiormente lo interessa è il lato diplomatico della questione, il suo obiettivo è mostrare di essere giunto laddove lo Stato liberale ha fallito e fare poi della risoluzione della “questione romana” il punto di partenza per inglobare la Chiesa e rendere la religione cattolica un utile strumento per la costruzione di una retorica improntata alla conquista e all’orgoglio nazionale. Sull’altra sponda del Tevere ci si è resi conto che probabilmente Mussolini possiede l’autorevolezza per imporre la conciliazione ma soprattutto, dopo gli scontri del periodo 1926-29, il Trattato e il Concordato possono svolgere il ruolo di veicolo per la conquista cattolica, ma anche di argine giuridico di fronte ad un potere oramai sempre più votato al totalitarismo. Seguendo l’autore in questo ragionamento è possibile attribuire dunque ai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 la duplice valenza di chiusura di oltre cinquanta anni di contesa tra Stato italiano e Santa Sede, ma allo stesso tempo nuovo inizio di una doppia strategia, del fascismo così come della Chiesa. I conflitti del post 1929 (emblematico quello tra regime e Azione Cattolica del 1931, ma cosa dire del discorso apertamente “laicista” di Mussolini del 13 maggio 1929?) vanno in questa direzione e soprattutto dovrebbe far riflettere quanto la lotta per la totale attuazione dei Patti e quella che Pertici indica come “pace armata” tra Stato italiano (fascista) e Santa Sede contribuiscano a far emergere quella Chiesa-istituzione così decisiva nel passaggio bellico per le sorti del Paese. Insomma, l’analisi di Pertici aiuta a comprendere quanto sia sterile ed inutile astrarre l’evento firma dei Patti Lateranensi dal suo contesto storico.

L’ottica di lungo periodo che pervade tutta l’analisi del volume guida il lettore al terzo momento decisivo, quello del dibattito sui Patti del Laterano in Assemblea costituente. Pertici naturalmente si sofferma sulla storica notte tra il 25 e il 26 marzo 1947, quando si arrivò al voto del fatidico articolo 7 della Carta Costituzionale ma, dopo aver reso onore alla saggezza di Togliatti e della maggior parte della classe politica antifascista capace di riconoscere il ruolo svolto dalla Chiesa durante la Seconda guerra mondiale, l’autore si sofferma sul carattere “aperto” della storica decisione. E mostra come in realtà la scelta di “costituzionalizzare” il Concordato fosse lungimirante innanzitutto perché fissava i margini di una sua revisione, o consensuale per legge ordinaria, o unilaterale attraverso la revisione costituzionale.

E a questo punto non si può che passare al quarto passaggio fondamentale, le centoquaranta pagine del settimo capitolo, che con il titolo Verso il pluralismo confessionale, costituiscono un vero e proprio breviario dell’evoluzione politica e sociale del cattolicesimo del nostro Paese dal post ’45 ai tardi anni Ottanta. In un capitolo che è allo stesso tempo saggio storico e contributo sociologico, Pertici mostra al lettore che il lungo percorso culminato con la firma del nuovo Concordato del 18 febbraio del 1984 racchiude in realtà l’evoluzione tanto della Chiesa (dai suoi travagli post-conciliari al passaggio decisivo del primo pontificato di un non italiano) quanto del cosiddetto “partito cattolico” o “dei cattolici”, ma soprattutto del Paese nel suo rapporto più profondo con la religione, fatto del diffondersi di un individualismo sempre più accentuato, di momenti di grande autonomizzazione della persona umana, ma anche di sconcertanti passaggi a vuoto dominati dall’abbandono dello spirito comunitario e dalla totale scomparsa della pietas cristiana.

Pertici non dimentica nulla, sottolinea l’importanza del Concilio Vaticano II, ma lo fa tornando ai testi, alla Gaudium et Spes e alla Dignitatis humanae e passando rapido su quella storiografia che ha finito, nella sua ansia di divinizzarlo, per sottolinearne più gli aspetti formali che quelli sostanziali. Riparte da quel 12 aprile 1965 quando Paolo VI decise di incontrare Nenni, il leader del partito che, tra quelli antifascisti, aveva fatto della laicità una vera bandiera, un tratto distintivo da opporre ai “comunisti clericali” (non a caso i socialisti avevano votarono contro l’articolo 7 in Costituente), per informare l’allora governo di centro-sinistra guidato da Moro che la Chiesa era pronta ad aprire il dibattito sulla revisione del Concordato. Nei venti anni successivi si contano sei differenti bozze governative, l’accentuata parlamentarizzazione del dibattito impressa da Andreotti nel corso degli anni Settanta, ma anche il decisivo passaggio del referendum sul divorzio e la manifesta incapacità della Dc di Moro e Fanfani di garantire quel profilo di autorevolezza necessario per negoziare un nuovo Concordato.
La conclusione è un giusto tributo alla lungimiranza di Craxi, ma anche al lavoro progressivamente svolto da un altro protagonista indiscusso della vicenda, quello Spadolini primo Presidente del Consiglio non cattolico dell’Italia post-bellica che nel 1982 decise di negoziare personalmente con Casaroli e arrivò a proporre quell’“accordo quadro” unito alle “tesi aggiuntive” che assomiglierà molto all’“accordo cornice” e alle “norme sub-concordatarie” elaborate dalla commissione Margiotta Broglio-Acquaviva, voluta da Craxi.

Pertici conclude ricordando il ruolo di “pacificazione nazionale” svolto dall’accordo del 1984 ed implicitamente mostra come questa “normalizzazione” in realtà rappresenti un punto di avvio imprescindibile per qualsiasi discussione odierna sul tema del rapporto tra religione e politica nel nostro Paese. Ma le oltre seicento pagine dell’autore, più altre duecento di documenti, chiariscono quanto l’esempio non sia scontato. Osservare la lunga e travagliata vicenda dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia aiuta a rendere un po’ meno “anomalo” il caso italiano e a mettere in guardia coloro che troppo spesso lo affrontano con superficialità.

È certamente vero che l’Italia del 2009 è profondamente differente rispetto a quella del 1984. Dunque il capitolo Concordato può anche essere riaperto, ma dove sono gli attuali Margiotta Broglio, Acquaviva, Gonella, Spadolini, Craxi, Pompei, Silvestrini, Casaroli, Bartoletti, Ballestrero che, solo per citarne alcuni, con pazienza e lungimiranza hanno fatto percorrere un lungo tragitto a quei Patti Lateranensi firmati in un contesto così contraddittorio come quello degli anni Trenta del Novecento? In attesa che nuove personalità all’altezza del compito si staglino all’orizzonte, Chiesa e Stato in Italia rappresenta un evento storiografico e contemporaneamente un’imprescindibile lettura, se si desidera davvero cercare di indagare l’identità profonda del nostro Paese.