
Tre motivi logici per essere contrari al taglio dei parlamentari

04 Febbraio 2020
di Aldo Vitale
Il prossimo 29 marzo 2020 si celebrerà il referendum costituzionale per la riforma del numero dei parlamentari, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, che passeranno dagli attuali 945 a 600.
La riforma, simbolo aureo del partito grillino, è stata giustificata con almeno tre motivazioni principali: un minor numero di parlamentari comporterebbe grandi risparmi per lo Stato, addirittura nell’ordine dei 100 milioni all’anno secondo i sostenitori della riforma; un minor numero di parlamentari velocizzerebbe i lavori parlamentari diminuendo i protagonismi e le opzioni individualistiche che spesso contraddistinguono l’azione dei politici in Parlamento ostacolando i lavori del potere Legislativo; è un atto simbolico contro quella cosiddetta “casta” che secondo il movimento grillino si sarebbe impossessata del potere per soggiogare il popolo e approfittarne a proprio esclusivo vantaggio.
Senza negare o nascondere le problematiche gravi e croniche che riguardano la qualità della maggior parte – pur con le dovute e rare eccezioni – della classe politica italiana, con le sue inefficienze, i suoi conflitti di interessi, i suoi schematismi ideologici, i suoi elevati tassi di corruttibilità rispetto agli altri Paesi, la sua imbarazzante impreparazione su temi delicati come la giustizia, la politica estera, le questioni bioetiche, la sua grottesca incapacità di intraprendere reali ed efficaci politiche strategiche di ampio respiro di carattere industriale, economico, fiscale e infrastrutturale di lungo-periodo, e tanto altro, occorre anche riconoscere i motivi che dovrebbero indurre gli spiriti genuinamente democratici ad essere contrari alla suddetta riforma del taglio dei parlamentari la quale, invece di migliorare la penosa situazione politico-istituzionale in cui versa l’Italia, rischia pericolosamente di aggravarne la attuale condizione “patologica”.
Preliminarmente occorre effettuare una precisazione sui numeri del risparmio che tale taglio dei parlamentari comporterebbe sull’ammontare effettivo delle spese pubbliche.
Nella più rosea delle ipotesi, infatti, si potrebbero risparmiare al massimo 60 milioni di euro ogni anno; considerando, tuttavia, che le spese nel bilancio dello Stato ammontano a circa 560 miliardi di euro all’anno – secondo i dati forniti dalla Ragioneria dello Stato – il risparmio ottenuto con il taglio dei parlamentari sarebbe pari a circa lo 0,010% dell’intero ammontare di spesa del bilancio dello Stato: sarebbe equivalente ad un risparmio di poco più di 2 euro ogni anno nel reddito medio annuo di circa 24 mila euro di una famiglia italiana media; il risparmio sarebbe, dunque, del tutto irrisorio ed impercettibile.
Ciò premesso, occorre precisare altresì che vi sono numerosi motivi – di ordine logico, giuridico e perfino filosofico – che consigliano di essere contrari alla suddetta riforma del taglio dei parlamentari.
In considerazione della ristrettezza dei presenti spazi e della universalità dei principi logici, soltanto a tre di questi si farà riferimento.
In primo luogo: se il principio ispiratore della riforma è quello del reale risparmio economico dei costi della politica, anche a prezzo del sacrificio del principio di rappresentatività, allora perché non si è affrontato il problema in modo molto più radicale e coraggioso puntando al massimo risparmio riducendo il numero dei parlamentari al numero minimo indispensabile di uno soltanto per ogni partito politico? Perché non limitarsi a prevedere 15 o al massimo 20 parlamentari in totale per ottenere il massimo risparmio possibile?
La provocazione mette in luce – con tutta evidenza – l’assurdità del principio ispiratore della suddetta riforma.
In secondo luogo: la riduzione del numero dei rappresentanti – in una democrazia rappresentativa quale è l’Italia – non garantisce una migliore rappresentatività, poiché il criterio quantitativo non si può mai tradurre automaticamente in criterio qualitativo: una pasta non sarà più o meno buona in base alla quantità che di essa si farà bollire, ma in base all’arte culinaria che il cuoco utilizzerà per cuocerla.
In terzo luogo: sarebbe bene porsi una domanda puramente logica: se una casta è tale sulla base della mentalità elitaristica che la fonda, è più casta una casta costituita da circa 1000 componenti o una (super)casta costituita da una ancor più ristretta cerchia di 600 componenti?
La riforma del taglio dei parlamentari voluta dal partito grillino, dunque, peggiora quello stesso male di cui si propone di essere goffa – e francamente più pericolosa – terapia, poiché elitarizza maggiormente quella stessa elite contro cui è stata pensata, lasciando derivare il sistema parlamentare italiano verso una direzione meno democratica e più oligarchica di quanto già possa apparire.
Non a caso, il noto ed autorevole costituzionalista Sabino Cassese ha avuto modo di precisare che «il risultato di un Parlamento con un minor numero di parlamentari sarà rafforzare i partiti, che non sono quelli di una volta: essendoci meno parlamentari, giocherà un minor ruolo il notabilato locale e quindi le segreterie dei partiti faranno il bello e il cattivo tempo. Il sistema diventa più oligarchico: più decisioni dall’alto e meno decisioni prese dal popolo».
La riforma del taglio dei parlamentari approvata dal movimento grillino, insomma, si posiziona sul sentiero di quella tragica ed oscura opera di erosione della solidità del sistema democratico italiano, erosione che avviene dall’esterno attraverso le predatorie attività dell’oligarchia finanziaria che si è cristallizzata nelle istituzioni eurocratiche attuali, e dall’interno attraverso il lento, ma progressivo smantellamento dei corpi intermedi (famiglia, partiti, sindacati) e delle istituzioni e degli enti rappresentativi (Parlamento, Governo, enti locali).
La riforma grillina del taglio dei parlamentari, insomma, oltre a lacerare il tessuto già storicamente logoro della democrazia rappresentativa italiana, tende a produrre effetti opposti e contrari rispetto a ciò che intendeva perseguire, dando ragione a Montesquieu il quale riteneva che «vi sono leggi che il legislatore conosce così poco, che sono contrarie allo scopo ch’egli si è proposto».