Tremate, tremate le riforme son tornate!

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Tremate, tremate le riforme son tornate!

09 Aprile 2010

Effettivamente ne sentivamo proprio la mancanza. Erano diversi mesi che il Paese non poteva più dilettarsi con uno dei suoi sport preferiti: il dibattito sulle riforme istituzionali! Ed ora finalmente il tema è tornato: potremo di nuovo piazzarci davanti al televisore a tifare per il modello istituzionale preferito (francese, americano, inglese, spagnolo). Non è proprio come assistere ad una finale di Champions League ma il divertimento è comunque assicurato. E poi c’è un (non trascurabile) vantaggio: non si rischia di perdere perché il dibattito (con ogni probabilità) si concluderà con l’ennesimo nulla di fatto.

Ma vogliamo comunque stare al gioco e proviamo ad addentrarci nella selva oscura delle formule istituzionali. Ma nella certezza di essere originali, e nella speranza di essere utili, anziché partire svelando sin da subito il nostro modellino preferito, cercheremo di svolgere un ragionamento sulle ragioni di una riforma e, conseguentemente, sui caratteri che la stessa deve avere per essere effettivamente utile al Paese.

In premessa una domanda non retorica. Sono davvero necessarie le riforme istituzionali? Sì sono necessarie e, a nostro avviso, lo sono per almeno tre buone ragioni che occorre tenere ben presenti quando ci si accinge a formulare ipotesi e proposte.

1) Il disegno contenuto nella nostra Costituzione è ormai non solo vecchio (e non è evidentemente questo il problema) ma soprattutto superato dall’evoluzione che la società e la politica italiana hanno compiuto negli ultimi vent’anni. La forma di governo disegnata dai padri costituenti era stata concepita per una giovane democrazia da costruire sulle ceneri del periodo fascista, per una società arcaica, con una forte polarizzazione politica, con partiti di integrazione di massa, con la presenza di un fortissimo partito antisistema, in un contesto internazionale di divisione in blocchi. Un contesto che favorì la scelta verso un modello parlamentarista puro, proporzionalistico, con un Governo debole ed un Parlamento forte, con deboli poteri di garanzia ed un forte accentramento del sistema.

Oggi tutto il contesto di riferimento è profondamente cambiato ed è evidente la necessità di adeguare l’architettura istituzionale. Occorre però stare attenti. Negli ultimi vent’anni anche in assenza di modifiche agli articoli della Costituzione che regolano la forma di governo del Paese il sistema è profondamente cambiato. I mutamenti della legge elettorale, l’evoluzione del sistema dei partiti, il generale mutamento degli orientamenti nella pubblica opinione hanno realizzato anche nel nostro Paese un sistema di democrazia maggioritaria governante lontano anni luce da quanto sperimentato nella Prima Repubblica. Certo il sistema attuale è assai imperfetto. Il ruolo incisivo assunto dal Governo si fonda spesso su prassi o sull’uso improprio di istituti giuridici (si pensi all’abuso della decretazione d’urgenza). Sono assai deboli i contrappesi istituzionali ed i poteri di garanzia. E’ ancora forte la retorica della “centralità del Parlamento” che viene ancora declinata secondo il modello del Parlamento fabbrica delle leggi e della spesa pubblica ed è invece del tutto assente la cultura del Parlamento come protagonista del controllo e dell’indirizzo politico. Ciò premesso se l’obiettivo dei riformatori è quello di adeguare la trama istituzionale alle modificazioni nel frattempo intervenute, sono i benvenuti. Ma se il loro obiettivo (come almeno per alcuni di essi temiamo) smontare quello straccio di democrazia maggioritaria che siamo riusciti a costruire e far ripiombare l’Italia nella democrazia dei partiti e delle fazioni allora è assolutamente preferibile lasciare le cose come stanno.

2) La seconda ragione per chiedere le riforme istituzionali risiede nel profondo processo di evoluzione della forma di Stato cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni. Con la frettolosa riforma del titolo V della Costituzione votata in tutta fretta dal centrosinistra allo scadere della XII Legislatura (nella vana speranza di intercettare l’elettorato leghista) abbiamo costruito uno scombinato modello di federalismo nel quale più che rafforzare la capacità decisionale delle Regioni abbiamo indebolito quella dello Stato. Ma un sistema federalista richiede che il riconoscimento di forti autonomie regionali sia compensato dall’esistenza di un forte governo centrale in grado di assicurare l’unità nazionale ed il coordinamento delle politiche pubbliche su tutto il territorio del Paese. E questa esigenza diventerà impellente con l’entrata in vigore del federalismo fiscale. Se si conviene su questa esigenza ben vengano le riforme. Se invece vogliamo continuare a baloccarci con il Senato delle Regioni, allora è meglio levar mano. L’esigenza di riformare il nostro bicameralismo perfetto e simmetrico è sacrosanta, ma per far ciò non c’è alcun bisogno di costruire un improbabile Senato delle Regioni che nella migliore delle ipotesi sarebbe un organo meramente decorativo (che in quanto tale presumibilmente non incontrerà mai l’appoggio dei senatori) nella peggiore renderebbe ingovernabile l’Italia.

3) Vi e poi un’esigenza prettamente politica. Un’esigenza che è sì politica ma dalla cui soddisfazione dipende il futuro del nostro cagionevole bipolarismo. Sono ormai quindici anni che la politica italiana vive con la sindrome ossessiva del dopo Berlusconi. E Berlusconi, dimostrando una grande  vitalità politica (inaspettata da molti), è riuscito a smentire tutti i cultori della cultura del (suo) declino che periodicamente ne vaticinano l’imminente tramonto. Ma non c’è dubbio che il Paese vivrà una fase di estrema delicatezza politica ed istituzionale quando Berlusconi deciderà di (o sarà costretto a) passare la mano. In quel momento sarà forte il rischio di un ritorno al passato con la frammentazione del quadro politico e la riemersione delle faide e dei gruppi di potere che hanno infestato per decenni la vita politica italiana. E allora ben vengano le riforme istituzionali (semmai di tipo presidenziale o semi presidenziale) se hanno l’obiettivo di mettere in cassaforte il bipolarismo e la democrazia governante costringendo i partiti a produrre una sintesi delle proprie dinamiche interne selezionando una leadership in grado di sottoporsi al giudizio del popolo sovrano candidandosi a guidare il Paese. Se invece l’obiettivo dei riformatori è rianimare le camarille dei partiti, i negoziati fra gli alleati di governo, le verifiche politiche … allora Dio ce ne scampi.