Tremonti metta in Costituzione anche un tetto alle tasse

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Tremonti metta in Costituzione anche un tetto alle tasse

10 Agosto 2011

È nel medioevo che viene alla luce la prima disciplina di bilancio. Il documento storico che per primo ne rivendica l’affermazione è la Magna Charta Libertatum del 1215, attraverso il quale per la prima volta i rappresentanti dei Borghi e delle Contee inglesi imposero al sovrano Giovanni Senza Terra (John Lackland) l’obbligo di sottoporre ad approvazione le spese e le entrate del suo regno. La disciplina di bilancio nacque come lo strumento cui le assemblee facevano ricorso per porre un freno al potere assoluto del sovrano. È sul bilancio che si fondano la creazioni di quegli atti giuridici moderni che definiamo Costituzioni.

Il principio di sottoporre alla sovranità dei Parlamenti, quali rappresentanti del popolo, il controllo delle spese del sovrano (che nei moderni ordinamenti altro non è che il Governo) è rimasto anche negli stati democratici. In essi, però, sopratutto dal secondo dopoguerra ad oggi, assistiamo ad un rovesciamento dei ruoli: i Parlamenti, essenzialmente per ragioni di consenso elettorale, hanno determinato una crescente espansione della spesa pubblica. E i governi hanno in genere assecondato questo processo di progressiva espansione del perimetro di intervento dello Stato.

L’espansione della spesa pubblica nel tempo è stata sostenuta con due azioni: l’incremento della tassazione su individui, famiglie e imprese e il ricorso sempre più ampio all’indebitamento pubblico. Che altro non è che tassazione differita sulle generazioni future. Solo di recente ci sì è resi conto a livello planetario della impossibilità a sostenere debiti crescenti da parte degli Stati. Le ricorrenti crisi finanziarie, innanzitutto, si ritiene con consensus pressoché unanime siano generate dagli enormi debiti pubblici cumulati da pressoché tutti gli Stati sovrani. Solo la Cina, tra i grandi paesi, presenta un bilancio pubblico in attivo e con tale attivo ha sottoscritto quote consistenti del debito pubblico statunitense. Inoltre la insolvenza finanziaria ha portato alcuni Stati (ad esempio l’Argentina) al default, contravvenendo ad una regola che ogni uomo di governo occidentale considerava quale clausola di salvaguardia del proprio operato: gli Stati non falliscono mai.

Nel mondo sviluppato, inoltre, sì è rotta l’illusione finanziaria, secondo la quale era possibile poter differire a domani la produzione della ricchezza necessaria a soddisfare la domanda generalizzata di benessere di oggi. Il Welfare State così come lo abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra europeo ha dato alla comunità dei Paesi ricchi un benessere diffuso e generalizzato grazie a una estesa copertura previdenziale, una diffusione delle cure mediche senza precedenti nella storia, una diffusione di massa dell’istruzione e della cultura e, almeno in Italia, un ricorso al lavoro pubblico quale improprio ammortizzatore sociale della disoccupazione.

L’Italia, che detiene il terzo o il quarto debito pubblico del mondo, sta per decidere di adottare un vincolo costituzionale al pareggio di bilancio. Lo fa per adempiere ad accordi sottoscritti tra i membri dell’Unione Europea e per dare continuità nel tempo a una decisione politica assunta sotto la pressione della crisi. Va detto che un vincolo costituzionale esisteva già nel nostro ordinamento. L’articolo 81 della Costituzione afferma che: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte», una norma che Luigi Einaudi definì «un baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente, allo scopo d’impedire che si facciano maggiori spese alla leggera, senza prima aver provveduto alle relative entrate».

A dispetto delle previsioni di Einaudi, la Corte Costituzionale all’inizio del 1996 scardinò il principio con una sentenza in cui si affermava che « è consentita la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l’inasprimento di tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l’accertamento formale di nuove entrate, l’emissione di prestiti e via enumerando, anche alla previsione di maggiori entrate». In altre parole la Corte lasciava alla totale discrezionalità di Parlamento e governo la possibilità di incrementare la spesa pubblica, anche facendo ricorso a un crescente indebitamento.

È evidente quindi che qualunque regola costituzionale perché sia rispettata deve prevedere regole certe per la sua deroga, come ad esempio la previsione di una maggioranza qualificata per l’approvazione di spese finanziate con il debito, cosa che può rendersi necessaria in condizioni eccezionali. Solo in questo modo si può tentare di rendere il vincolo cogente e di sottrarlo all’arbitrio del giudice costituzionale. Se va posto un vincolo costituzionale al pareggio di bilancio, un vincolo costituzionale altrettanto forte va posto alla pretesa fiscale dello Stato.

Come ha scritto Antonio Martino, «il pareggio di bilancio è cosa buona se la spesa pubblica è ridotta ma se è ai livelli attuali (oltre il 51%) non lo è affatto. Il danno a noi privati non lo fa il modo in cui le spese sono finanziate, se con tasse o debiti, ma il suo ammontare. Se il settore pubblico si prende il 30% del reddito, a noi resta il 70%, se prende il 51%, come fa oggi, a noi resta il 49%. Per questo al principio del pareggio del bilancio dovrebbe essere abbinato un tetto alla pressione tributaria. Se lo Stato preleva il 35% del Pil e deve pareggiare il bilancio, non può spendere più del 35%».

Questa proposta venne già avanzata nel 1994 da Silvio Berlusconi. E l’attuale ministro dell’economia la commentò in un editoriale su Il Corriere della Sera: «una proposta che ha un forte valore politico e simbolico, perché interpreta la giusta reazione ad un eccesso di pressione fiscale. […] In realtà da almeno un quarto di secolo l’economia italiana incorpora un eccesso di spesa pubblica e la sua riduzione drastica distruggerebbe, con la società , l’economia italiana. Il crollo dei consumi e l’incremento della disoccupazione renderebbero ingovernabile il Paese. […] Il problema non è solo di limite della tassazione, è soprattutto di tipo della tassazione. [..] Ciò che occorre soprattutto è una riforma fiscale. Le tasse smetteranno infatti di inseguire le spese solo se si passerà dal principio del sacrificio assoluto anche a quello del beneficio, solo se attraverso l’autogoverno consentito dal federalismo ed attraverso il decentramento degli uffici pubblici, i cittadini contribuenti potranno controllare cosa fanno e come spendono i pubblici amministratori. A questo punto il limite potrà anche essere formale, ma sarà soprattutto naturale, interno al sistema stesso. Solo con questo cambiamento, agendo sulle cause e non sugli effetti della crisi fiscale, si potrà riformare la politica e con questa risanare la finanza pubblica, sottraendola al vincolo del debito che a questo punto sarà solo un elemento di eredità del passato e non un elemento di continuità strutturale».

Una previsione purtroppo largamente smentita dai fatti, visto che oggi lottiamo per non soccombere al debito dovendo constatate di aver perso quasi diciotto anni della nostra vita e gettato al vento almeno sei di governo dell’economia da parte proprio di Giulio Tremonti.