Troppo comodo fare i pluralisti solo a spese dei “cattivi”
19 Dicembre 2008
Gli intellettuali militanti (giuristi, filosofi del diritto e della politica, sociologi, pubblicisti, letterati, cineasti e teatranti etc.) sono senz’altro pluralisti, quando si debbono fare i conti con i nemici tradizionali, ma nella fase decisiva della costruzione dei nuovi assetti politici ed economici, come possono rimanerlo? Quando sono in questione la politica, l’economia, i ‘diritti di terza e quarta generazione’ come si può dare la stessa dignità a tutti i <soggetti del pluralismo>? Sarebbe come far convivere il male–le forze ‘impersonali’ del mercato, il saccheggio della natura, la condanna alla fame indotta dal trionfo planetario del capitalismo—col bene—il ‘nuovo modello di sviluppo’, l’anticonsumismo, la costituzionalizzazione dei ‘diritti sociali’ etc.
Se si riflette sui documenti teorici di gran parte della sinistra contemporanea, sulla sua pubblicistica, sulle terze pagine dei suoi giornali,sulle sue riviste accademiche e di largo consumo , si è indotti a constatare, un po’ dovunque nell’Europa latina e soprattutto nel nostro paese, che il pluralismo, tanto esaltato nelle cerimonie ufficiali e nei sermoni civili, riguarda esclusivamente la cultura, i costumi, la religione, le concezioni della famiglia, del sesso, del matrimonio. In questi campi quanto ci proviene dal passato viene fatto a pezzi, la tolleranza diventa massima–ci sono giuristi che pongono il problema se sia giusto, in caso di poligamia, di assegnare la pensione vedovile solo a una donna di casa..–,si giunge persino a rifare la storia e la geografia dei popoli, con tanto di mea culpa e di perdoni richiesti per—presunte– colpe di mezzo millennio fa se non ancora più indietro nel tempo. Al di fuori della buona compagnia pluralista, però, rimangono due settori decisivi del mondo contemporaneo, la politica e l’economia.
In politica, ovvero nella sfera vitale che regola autoritativamente il traffico sociale e pone gli argini istituzionali entro i quali debbono svolgersi le dinamiche dei partiti e dei gruppi, il pluralismo rischia di diventare una pietanza indigesta. Quelle che un tempo si chiamavano le forze vive e operanti della nazione non possono legittimare, con tranquilla coscienza, Margaret Thatcher e Neil Kinnock, José Maria Aznar e José Luis Rodríguez Zapatero, Silvio Berlusconi e Romano Prodi., trattandoli come meri prodotti offerti sul mercato elettorale, e atti a soddisfare, con il loro diverso pregio e qualità, i differenti bisogni della ‘comunità di cittadini’. Gli uni, infatti, rappresentano il passato, la reazione, gli altri l’avvenire, gli uni stanno dalla parte dei ‘beati possidentes’, gli altri <portano avanti> l’impegno a fare star meglio tutti e non solo una minoranza di privilegiati. E se le infide urne e i ludi cartacei non fanno vincere i ‘nostri’, le ricordate <forze vive e operanti>, rappresentate dalle comunità di base, dai centri sociali, dagli autonomi, dai sindacati, dai vari collettivi, hanno il dovere di far sentire la loro voce, di scendere in piazza, di paralizzare le città, di indire scioperi generali. A dar man forte, del resto, non mancheranno magistrati e giuristi, fautori dell’interpretazione evolutiva del diritto, pronti a dimostrare che le cattive leggi–cioè quelle che non incontrano il loro benestare–sono incostituzionali e che approvarle significherebbe mettere a repentaglio la democrazia, spianando la via a un regime autoritario e poliziesco, se non fascista.
In economia, poi, lo spazio del pluralismo risulta ancora più esiguo. I vincoli posti all’iniziativa privata e alla libera contrattazione sono iscritti nelle stesse carte costituzionali—quella italiana, non a caso, è una ‘repubblica fondata sul lavoro’ e considera proprietà e iniziativa privata come un dato da regolamentare non come un diritto in nulla distinto dalla vita e dalla libertà (il tante volte richiamato in queste pagine, <tripode lockeano>)..Una prova indiretta ma non meno significativa dell’espulsione del pluralismo dal Purgatorio odierno dell’economia politica è fornita dall’idea, sostenuta di recente in un editoriale del ‘Corriere della Sera’, da un valente politologo, che i sindacati dovrebbero farsi carico non solo dei già occupati, degli <insiders> ma anche, se non soprattutto, degli ‘esclusi’. E’ la filosofia di giuristi, di sociologi, di scienziati della politica, caratterizzati non dalla sindrome antagonista ma dal desiderio sincero di collegare la riva socialista a quella liberale. CGIL, CISL, UIL, a loro avviso, dovrebbero pensare di più alla massa di <giovani, donne irregolari, inattivi scoraggiati, immigrati, disoccupati ‘senza rete> e quant’altro. E’ una posizione rispettabile che attiva la simpatia di non pochi liberali ingenui, colmi di ammirazione per quanti, a sinistra, osano criticare la Trimurti sindacale e i suoi ‘egoismi’di classe. Sennonché, a prendere seriamente in esame tale critica, al di là di ogni tentazione buonista, ci si accorge che essa non si sottrae affatto alla concezione ‘sacrale’ del conflitto politico. Attribuire ai sindacati il compito di tutela degli <outsiders> significa riconoscere ad essi una funzione pubblica, di superministero della protezione sociale, farne non più un <gruppo di pressione> come un altro, ma un’autorità morale pari, in un certo senso, a quella dei custodi della Costituzione (Presidenza della Repubblica, e Suprema Corte) e alla Conferenza Episcopale.
In una società compiutamente secolarizzata, i <soggetti del pluralismo> fanno valere tutti i propri interessi <particolari> senza che se ne debbano vergognare e <l’interesse collettivo> nasce dalla diagonale delle forze in campo, da un confronto serrato che non disdegna l’esibizione dei muscoli, le minacce, il ritiro dal tavolo del negoziato. Attese e aspettative delle categorie generali-trasversali trovano i loro paladini o in gruppi di pressione specifici (partiti e movimenti tipo i ‘verdi’), che li fanno valere con mezzi anch’essi specifici (al limite, ricorrendo alla violenza o alla sua minaccia) o vengono recepiti e messi nell’agenda politica dagli attori tradizionali in competizione per il potere. In ogni caso, la rinuncia realistica all’autosacralizzazione, ossia all’autocollocazione su un podio sopraelevato rispetto alla platea di quanti affermano, ‘in maniera scomposta’, il proprio ‘particulare’, è il contrassegno sicuro del <pluralismo dei moderni>. Il tribunato della plebe—una carica che rendeva ‘intoccabili’ i suoi detentori—,era un istituto che aveva una sua funzione insostituibile nelle antiche repubbliche aristocratiche ma che non trova più alcuna ragion d’essere nelle moderne democrazie dove tutti sono rappresentati unicamente in ragione del numero.
Un ‘pluralismo che non investa la politica e l’economia che, con la scienza, sono i fattori che trasformano, anzi rivoluzionano,senza tregua il mondo moderno, non è soltanto <dimezzato>: è, quel che è peggio, taroccato. Diventa l’arma impropria per fare prevalere, nel conflitto politico e nel contenzioso economico, una parte sull’altra, un interesse sull’altro. Un modo per sprofondare nell’inferno della <comunità chiusa> lastricando la via che ad essa conduce di segni e di simboli della <società aperta>–pluralistica, appunto.
<Gli Italiani> sentivo spesso ripetere negli anni della mia giovinezza, <sono socialisti e non lo sanno>. Oggi si potrebbe dire che <gli Italiani credono di essere pluralisti e non lo sono>. O, per dir meglio, lo credono non gli Italiani ma i loro <clercs>, quelli che fanno opinione sulle pagine dei giornali, negli uffici editoriali, nelle redazioni in cui si preparano i palinsesti televisivi. Ardono dal desiderio di scuotere dalle fondamenta la <morale cattolica>, di far riconoscere nei codici civili una concezione di <ciò che è naturale> che avrebbe fatto inorridire (e, forse, a torto) i nostri padri e nonni, fanno del pluralismo etico e culturale il fondamento libertario della ‘nuova società’ ma , dietro le quinte di tanto relativismo nutrono incrollabili certezze. A volerle sintetizzare: nel loro universo mentale, la Destra—intesa, in senso assai lato, come la cassaforte, dei valori che essi contestano, indipendentemente dal fatto ,tutto da dimostrare, che si tratti davvero di <valori di destra>: la Nazione, il capitalismo, il mercato, lo stile limitato della politica—sarebbe una voce stonata nel coro pluralista e, pertanto, non meraviglia che non ne faccia parte.
Sennonché un pluralismo-setaccio che discrimina, che, come i giudici dell’Inferno dantesco, <giudica e manda secondo ch’avvinghia>, è una vera e propria contraddizione in termini. Non si può essere aperti al ‘diverso’ solo se ci si trova dinanzi a un diverso ‘buono’, funzionale a una particolare concezione del progresso, quella illuministico-libertaria.
Sarebbe sbagliato, però, attribuire a un errore della mente una contraddizione che ha una sua ferrea logica. Se ci si riflette senza preconcetti, infatti, quanto più una società <prendesse sul serio> il pluralismo, tanto più dovrebbe lasciare agli individui, ai gruppi, alle associazioni la libertà di vivere conformemente ai loro valori e tanto minore spazio dovrebbe riservare alla sfera pubblica e, in ultima istanza, allo stato sociale, da tempo ormai autorizzato, come Robin Hood, a togliere ai ricchi per dare ai poveri. Se non si può pretendere, ad esempio, che un ebreo italiano contribuisca, attraverso il prelievo fiscale, a finanziare le scuole cattoliche, non si vede perché un cattolico dovrebbe essere obbligato a contribuire, in modo analogo, alla creazione di istituti religiosi islamici. La ‘fase estrema’ del pluralismo sarebbe: <ognuno per sé> e accordi solo sulla collocazione dei semafori che devono regolare il traffico sociale. E’ il coerente approdo di Murray N. Rothbard (v. il saggio Nazioni per consenso: decomporre lo Stato nazionale), teorico di un libertarismo privo di scorie illuministiche Ma è proprio questo che si vuole? Per ritornare alle considerazioni da cui siamo partiti, sarebbe una prospettiva assai poco esaltante per quanti non sono attrezzati, intellettualmente e moralmente, a considerare <forti> i valori non condivisi da tutti—e, al limite, non imposti a tutti dallo Stato non solo attraverso i codici ma, altresì, attraverso un sistema educativo volto alla nazionalizzazione delle masse.
Personalmente, a scanso di fraintendimenti, non credo che il pluralismo estremista sia compatibile col liberalismo classico, innegabilmente pluralista ma con molto ‘juicio’. Il pluralismo taroccato all’italiana, però, mi sembra una mostruosità nata da un incubo notturno. Per servirmi di una immagine rozza e sconveniente, mi fa venire in mente un uomo nudo dalla cintola in giù e pertanto libero di andare e venire con le sue gambe e di assecondare, con altri organi, i richiami più naturali della carne ma ,dalla cintola, imprigionato in una camicia di forza—i vincoli dell’economia ‘sociale’ e gli obblighi di una concezione sostantiva e comunitaria della democrazia—che gli impedisce o limita fortemente l’uso di braccia e mani.