Trump al G7 ha smascherato il falso unanimismo europeo su clima e immigrati

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Trump al G7 ha smascherato il falso unanimismo europeo su clima e immigrati

30 Maggio 2017

Ormai è chiaro: l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha innescato un salutare processo di chiarificazione nella situazione politica mondiale, ed in particolare nelle relazioni interne al mondo occidentale. Pur con tutte le contraddizioni insite nel contrasto tra la sua piattaforma elettorale (e base elettorale) neo-nazionalista e la linea tradizionale del Partito Repubblicano, il presidente-tycoon ha già fatto venire alla luce tutte le contraddizioni e le ipocrisie cristallizzate in questi anni nell’establishment politico dei paesi europei, con particolare riferimento alla Ue “a trazione tedesca”. Da questo punto di vista il summit del G7 tenutosi nei giorni scorsi a Taormina ha rappresentato uno spartiacque fondamentale. I comunicati finali e le dichiarazioni successive hanno evidenziato al di là di ogni dubbio come il vertice sia stato un sostanziale insuccesso su quasi tutti i fronti, e soprattutto come tale insuccesso sia il frutto delle macroscopiche divergenze strategiche tra la nuova amministrazione statunitense e i principali paesi della Ue, ma anche delle contraddizioni interne alla Ue stessa.

Il primo ambito in cui la linea di Trump ha fatto saltare gli equilibri interni al G7 – e anche i nervi di alcuni tra i principali leader europei, come dimostrano le reazioni per una volta molto poco misurate di Angel Merkel e Sigmar Gabriel – è quello delle politiche contro i cosiddetti “cambiamenti climatici“. La presidenza Obama aveva pienamente assecondato la linea ufficiale della comunità internazionale che insisteva sulla derivazione antropica del climate change, e sulla necessità di imporre limiti drastici alle emissioni di gas da parte dei paesi industrializzati, e che ha portato alla firma degli accordi di Parigi del 2015. Viceversa Trump, come promesso in campagna elettorale, si è messo di traverso rispetto al contenuto degli accordi, dichiarando che gli Stati Uniti non riconoscono il tema come una priorità, sono scettici sull’analisi delle cause del fenomeno e sulle proposte terapie, e ritengono prioritaria rispetto ad esse la difesa dell’industria e dell’economia americane. In questo modo, il presidente statunitense ha fatto cadere d’un colpo tutto il castello di carte che negli ultimi decenni è stato costruito per avvalorare l’interpretazione “ortodossa” imposta dalle organizzazioni internazionali sul tema.

La tesi secondo cui esisterebbe un “riscaldamento globale” causato dalle emissioni di origine antropica è un mito che nasce dalla virata catastrofista prodotta dall’ambientalismo sul finire del XX secolo: una teoria priva di consistenza scientifica, fondata su mere supposizioni mai confermate né confermabili (per mancanza di dati affidabili) da nessuna verifica, e rispondente a pregiudizi ideologici anticapitalisti e antiumanisti. Alimentata da organismi creati in seno all’Onu (tra cui soprattutto il famigerato Intergovernmental Panel for Climate Change, IPCC), interessati per la propria autoperpetuazione a fornire dati allarmanti, e  trasformata in mainstream per la prima volta dall’ex vicepresidente statunitense Al Gore con il film An unconvenient truth, la tesi del “climate change” antropico ha incoraggiato – dal Protocollo di Kyoto del 1997 al già citato accordo di Parigi di un anno e mezzo fa – enormi stanziamenti da parte di molti tra i maggiori paesi industrializzati, e l’adozione di fortissime restrizioni alle attività produttive, che hanno sottratto risorse preziose e creato notevoli ostacoli alla crescita economica mondiale, in particolare ai paesi in via di sviluppo. Infatti proprio il maggiore tra i newcomers dell’economia globalizzata, la Cina, insieme agli Stati Uniti è stato a lungo il paese che ha opposto  resistenza strenua resistenza ai programmi di conversione “sostenibile” degli impianti industriali e del modello di vita dei paesi ad alto tasso di industrializzazione. Ma nelle élites culturali e mediatiche occidentali, incluse quelle americane, per lungo tempo questa tesi è stato considerato come un dogma assoluto e indiscutibile, e tutte le opinioni dissenzienti rispetto ad esso sono state emarginate e delegittimate.

Ora finalmente Trump, come il bambino della favola, dice senza pudore che l’imperatore è nudo, mandando in crisi tutto l’apparato di questa che è tra le più pervasive ideologie del nostro tempo. Comunque si evolva la situazione in proposito – sia cioè che gli Stati Uniti escano tout court dalla piattaforma degli accordi, sia che optino per rimanere all’interno di essa, ma rivedendo decisamente al ribasso i propri impegni –  si può dire che ormai l’ipocrita unanimismo intorno a questo dogma è destinato a finire, lasciando il campo – e ben venga – ad una discussione più laica e più concreta sulla conciliazione tra sviluppo economico e ambiente.

Un altro tema di discussione del summit sul quale le posizioni di Donald Trump hanno svolto la salutare funzione di smascherare la retorica ufficiale europea è quello dell’immigrazione. Su questo punto da anni è in corso all’interno dell’Ue un braccio di ferro sottotraccia, coperto da nobili proclamazioni ideali umanitarie e solidali, tra i paesi maggiormente sottoposti alla pressione degli immigrati clandestini (tra cui l’Italia è forse quello che si trova nella posizione più svantaggiosa) e quelli verso i quali le ondate di immigrati sono maggiormente diretti. Ogni vertice internazionale  rappresentava, da questo punto di vista, l’occasione per rafforzare le reciproche posizioni, nascondendo il confronto sotto parole d’ordine ispirate ad un generico solidarismo. In questa occasione, però, l’operazione è diventata palese, proprio perché il presidente americano – fedele alla sua impostazione secondo cui combattere strenuamente l’immigrazione clandestina è un dovere più alto, per il governante di una nazione, dell’accoglienza più o meno indiscriminata – ha imposto, nel documento finale, che l’usuale retorica umanitaria fose controbilanciata da un secco e chiaro richiamo al diritto per ciascuno Stato di controllare i propri confini, e di consentire l’ingresso di immigrati nel rispetto – appunto – degli interessi nazionali. Questa esplicita contrapposizione di obiettivi ha impedito il solito gioco per cui gli stati “di passaggio” cercano di trascinare gli altri a difendere i propri confini difficilmente difendibili, e quelli di destinazione promettono impegno in tal senso per poi, in concreto, erigere barriere ai confini propri, in barba agli accordi di libera circolazione, per “imbottigliare” i clandestini in quelli che si trovano in prima linea.

Insomma, in entrambi i casi l’entrata in scena di Trump ha rappresentato  un benvenuto bagno di verità, di pragmatismo e di anti-ideologia su temi tanto cruciali e delicati per il futuro dell’Occidente E ciò spiega ad abundantiam perché l’elezione del tycoon fosse così temuta dalle élites del “politicalcorrettismo” mondialista e euro-dirigista, che proprio sull’unanimismo ideologico fondano il proprio potere e la propria comunicazione, e perché la sua figura sia stata, prima e dopo l’ingresso alla Casa Bianca, così violentemente delegittimata.

C’è da augurarsi dunque che le manovre per spodestarlo già messe in opera da quelle élites attraverso ogni arma politica e mediatica (di cui il cosiddetto “Russiagate” è un primo, consistente esempio) non siano coronate da successo. E che il presidente americano, d’altro canto, sappia contemperare la sua benemerita pars destruens con la coscienza che gli Stati Uniti non possono abdicare al loro ruolo di guida dell’Occidente, per evitare la deriva rovinosa di un’Ue politicamente irrilevante, culturalmente evanescente e sempre più involuta su se stessa.