Trump, i nativi americani e la rivolta contro le élite

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Trump, i nativi americani e la rivolta contro le élite

17 Novembre 2016

La vittoria elettorale di Donald Trump, neo-eletto 45esimo Presidente degli USA, ha suscitato negli Stati Uniti e in Europa numerose riflessioni sul significato da attribuire al voto. Significato, ad una prima superficiale analisi, classificato quale “voto di pancia” contrapposto al cosiddetto “voto di  testa” che sarebbe stato proprio degli elettori della rivale Hillary Clinton. Tale schema, peraltro superato nelle ulteriori successive analisi, è però espressione di una tematica di fondo non sufficientemente esplorata dalla sociologia politica. E la tematica è la seguente: qual è la genesi della struttura valoriale culturale americana?

L’indagine su tale quesito, tralasciando per il momento i pensatori europei, è stata effettuata con brillanti intuizioni da un sociologo americano, Robert M. Pirsig (autore del celebre Lo zen e l’arte della manutenzione della bicicletta) nel suo secondo libro Lila. Il sociologo parte dalla constatazione storica dell’impatto del pensiero puritano nella genesi della struttura valoriale della neoformata nazione americana.

In particolare Pirsig si pone il seguente interrogativo socio-politico: come hanno potuto dei fuoriusciti dell’era vittoriana (che certo non brillava per aperture sociali alla libertà individuale) dar vita ad un sistema di valori fondato sulle pari opportunità, sulla possibilità di ogni individuo nato libero di realizzare se stesso e la propria felicità? Tenuto conto che come rileva lo stesso Pirsig “Il principio dell’uguaglianza sociale, con buona pace di Jefferson, non è affatto ‘evidente in sé’”. La scienza e la storia indicano che è vero, semmai, il contrario. Niente comprova, nella storia d’Europa, l’irrefutabilità dell’idea che tutti gli uomini sono stati creati uguali.

Non esiste una sola nazione europea le cui radici storiche non affondino in un’epoca in cui indiscutibile era, piuttosto, l’idea che gli uomini sono stati creati disuguali. Rousseau, al quale viene di solito attribuita la dottrina dell’uguaglianza, non la dedusse certamente dalla storia dell’Europa, o dell’Asia o dell’Africa. La trasse dall’incontro dell’Europa con il Nuovo Mondo e dall’osservazione di un particolare tipo di essere umano che quel mondo abitava e che egli denominò il “Buon Selvaggio“. L’idea che tutti gli uomini sono stati creati uguali, e dunque liberi, è “il dono dell’indiano d’America al mondo intero”.

In buona sostanza, secondo Pirsig, attraverso un processo non voluto o consapevole l'”homus vittorianus” nell’espansione ad ovest, nelle terre selvagge, assimilava  i valori degli indiani (anche se quando si mutuano caratteri ed atteggiamenti della cultura dei nemici si tende a non riconoscerne mai il debito). Con una certa dose di ironia Pirsig individua due tratti di cui l’attuale cultura americana è debitrice nei confronti dei nativi americani: l’insofferenza per lo snobismo e la politica isolazionistica con il rifiuto degli USA a farsi coinvolgere nei problemi dell’Europa (non a caso il sostegno maggiore all’isolazionismo viene dalle regioni dove più diretto è stato il contatto con i pellerossa).

Secondo Pirsig il processo di diffusione e assimilazione dei valori indiani non è concluso. E’ ancora in corso e spiega in parte l’irrequietezza e lo scontento che pervade l’America di oggi. Dentro ciascun americano è ancora acceso il dissidio tra i due incompatibili sistemi di valori. Singolare è la descrizione dello spirito vittoriano riportato da Pirsig per il quale i rappresentanti dell’élite non erano altro che una “manica di bifolchi arricchiti” che, dopo gli sconvolgimenti della guerra di secessione si ritrovò in piena età industriale. Una situazione senza precedenti in cui mancava qualunque riferimento comportamentale. Gli unici modelli di vita ritenuti all’altezza venivano scimmiottati dalla aristocrazia europea. Ma mancando negli Stati Uniti una aristocrazia “autoctona” non vi era un “sistema immunitario culturale” per evitare gli eccessi caricaturali propri dell’aristocrazia.

Da qui il sorgere di una strutturale ambivalenza culturale che ha tentato, senza riuscirvi, la sintesi tra gli elementi valoriali dell’aristocrazia europea (senza aristocrazia autoctona) e spirito nativo (all’antitesi di quei valori). Tale ambivalenza strutturale non poteva non riflettersi nella sfera istituzionale secondo i poli indicati da Pirsig come staticità e dinamicità.

Nel senso che la struttura sociale statica importata negli Stati Uniti dai vittoriani europei si è evoluta nell’attuale costituzione attraverso lo strappo violento del genocidio dei nativi americani il cui apporto culturale in punto di libertà individuale e rifiuto degli schemi ha fatto sì che lo schema sociale statico vittoriano si evolvesse in un più democratico schema sociale dinamico. Secondo Pirsig tale schema negli Stati Uniti è in perenne funzione. In quanto ogni struttura sociale dinamica  dopo un po’ di tempo si fa élite e struttura burocratica (elemento puritano-vittoriano): a questo punto solo un’evoluzione (normalmente con forte cifra di strappo culturale e/o sociale) riconduce ad un nuovo schema a struttura dinamica liberando le energie e la creatività individuale (lascito dei nativi americani) in tal modo consentendo alle nuove idee dinamiche di spazzare via i vecchi schemi statici senza con ciò distruggere lo Stato.

Il merito (consapevole o inconsapevole) di Donald Trump è stato quello di avere interpretato l’esigenza di strappo culturale degli elettori nei confronti di un sistema di potere ritenuto statico e senza prospettiva: quello che in Europa sbrigativamente definiamo come ribellione alle élite. E questo è ciò che è mancato alla sua rivale Hillary Clinton la quale è rimasta intrappolata all’interno di una struttura vista dagli elettori come socialmente statica e priva di prospettive valoriali autenticamente “americana”.