Trump, Mueller e la politica estera Usa (bloccata dallo special counsel)
08 Maggio 2018
Persino il New York Times si accorge di quanti guai si stanno producendo permettendo che la politica estera della Casa Bianca sia bloccata dallo special counsel Robert Mueller. “He can currently magnify his personal role by simply picking up the phone to defuse a crisis”. Joost Hiltermann sul New York Times del 3 maggio spiega che in Medio Oriente, quando esplode una crisi, l’unica personalità a cui si rivolgono di fatto israeliani e iraniani, turchi e sauditi, egiziani e libanesi e così via, è Vladimir Putin. “But in Ukraine, where officials are wary of offending President Trump, four meandering cases that involve Mr. Manafort, Mr. Trump’s former campaign chairman, have been effectively frozen by Ukraine’s chief prosecutor. The cases are just too sensitive for a government deeply reliant on United States financial and military aid, and keenly aware of Mr. Trump’s distaste for the investigation by the special counsel, Robert S. Mueller III, into possible collusion between Russia and his campaign, some lawmakers say”. Andrew Kramer sul New York Times del 2 maggio spiega come il governo di Kiev non collabori di fatto più con Robert Mueller e la sua indagine su chi ha lavorato per la campagna elettorale di Donald Trump, perché Washington è troppo preziosa per l’Ucraina per rischiare di destabilizzarla. Il mondo, dal sud est europeo all’area della Mezzaluna fertile, è sbandato grazie ai pasticci del magnifico trio Obama-Hillary Clinton-Kerry, e ora avrebbe bisogno di trovare un equilibrio grazie a una nuova politica estera, di Washington, iniziando da un indispensabile dialogo con Mosca. Mueller sta indagando su Trump da un anno, se ha trovato qualcosa di significativo la porti al Congresso e si regolino i conti con eventuali illegalità del presidente in carica, altrimenti smetta di sequestrare la politica estera dello Stato da cui dipendono tutti gli equilibri globali.
Un Folli iper-retorico non si spiega come e perché il Quirinale abbia perso certi poteri di indirizzo (per qualche verso anomali) che aveva assunto in particolare con la Seconda repubblica. “In altri tempi un appello di questo genere del capo dello Stato, un richiamo pubblico nel quale il primo cittadino si espone in prima persona calibrando ogni parola, avrebbe suscitato un’adesione unanime e immediata”. Così scrive Stefano Folli sulla Repubblica dell’8 maggio. Vi è un’esagerata enfasi retorica nelle parole follesche. Per capirlo basta andare un momento con la memoria a Giovanni Gronchi e alle polemiche che lo colpirono anche da parte Dc, o ad Antonio Segni e alle accuse drammatiche per esempio di Eugenio Scalfari, basta ricordare il caso Giovanni Leone e il trattamento che gli riservò il Pci, o il tentativo guidato da Luciano Violante di azzoppare Francesco Cossiga alla fine degli anni Ottanta. Certamente, peraltro, dopo il ’92 il ruolo del Quirinale in parte è cambiato: di fronte a una nuova realtà politica cresciuta fuori dal cosiddetto arco costituzionale (la Lega, Alleanza nazionale e Forza Italia) i presidenti della Repubblica sono diventati il punto di mediazione (spesso con anche forme di coercizione) di queste “nuove” forze rispetto agli ex Pci e al’ex sinistra Dc che rappresentavano quel che restava dei “costituenti” e, insieme, un collegamento con parte rilevante dell’establishment nonché con sistemi di influenza straniera anomali rispetto alle altre grandi nazioni europee (dalla Germania alla Gran Bretagna, dalla Francia alla spagna fino alla Polonia). Per capire la situazione attuale bisogna intendere come questo ruolo di guida sostanziale quirinalesca, già anomalo in sé, si sia esaurito. Ciò è derivato dall’insensata durata del governo Monti (in Grecia un governo tecnico uguale al nostro è durato 3 mesi non 16), da un governo (quello di Enrico Letta) di “unità nazionale” dove il leader di una delle due parti contraenti è stato espulso dal Senato, da un presidente del Consiglio non parlamentare (Matteo Renzi) di cui non si è sentito il bisogno di dargli una legittimità elettorale. Di una sconfitta campale sulla questione centrale del governo in carica (il referendum del dicembre 2016 sulla riforma costituzionale) a cui è seguito un governo (quello Gentiloni) che è restato in carica per oltre un anno. E’ da questa storia (perfezionata dalla scellerata e sconclusionata idea che un sistema elettorale, il Rosatellum, avrebbe dato la base parlamentare per un governo Renzusconi) che è nata l’esplosione della protesta senza proposta (la mancanza di “proposta” è stata ben certificata anche dai balbettii di queste settimane di Luigi Di Maio) dei grillini, e la connessa attuale necessità di fondare i governi sul voto (magari facendo rivotare se il responso non è chiaro, come avviene in ogni paese civile) e non sugli “appelli di questo genere”.
C’erano una volta i radicali che avevano il culto della centralità del cittadino nella vita delle istituzioni. “Chiedono agli italiani di riporre le infradito da spiaggia e di andare votare”. Così dice Emma Bonino a Giovanna Casadio sulla Repubblica dell’8 maggio. Sostituire così una retorica da sora Lella al culto della centralità del cittadino nelle vita delle istituzioni, credo faccia rivoltare nella tomba Marco Pannella.
Se la politica appare torbida e insieme inconsistente, i topini inconsistenti tornano a giocare. “L’Italia sta danzando sull’orlo del burrone”. Così dice Pierferdinando Casini a Giovanna Casadio sulla Repubblica del 5 maggio. Casini è uno dei politici più inconsistenti d’Italia. Forse anche più di Walter Veltroni, il quale dalla sua, sentendo l’odore di una stagione dove l’inconsistenza può tornare a riavere un ruolo, sta rialzando anche lui il capino con frasi ispirate al classico “è vera una cosa ma anche il suo contrario”: così Huffington Post Italia del 5 maggio registra una sua lapidaria dichiarazione: “E’ sbagliato stare sull’Aventino e contemporaneamente dare ‘l’idea di correre dietro agli altri”. Ma tornando a Casini, è probabile che l’ex pupillo di Arnaldo Forlani rimiri con soddisfazione le macerie del Paese alle quali tanto ha contribuito: basti pensare che ai suoi (e di quell’altro genio di Marco Follini) ricatti è dovuta la svolta filo-proporzionalista della legge elettorale poi confezionata da Roberto Calderoli (2005), perché il topino dell’Udc o Ccd o come cavolo si chiamava agli inizi del Duemila, per cercare di rosicchiare una fettina in più di formaggio considerava scomodo un Mattarellum che aveva consentito almeno due legislature (1996-2001 e 2001-2006) con una maggioranza stabile. Cosa non più avvenuta nel 2007, nel 2008 e nel 2013 (e così a occhio nel 2018).