Tutti gli errori commessi dagli Usa in Iraq prima del “surge”
15 Agosto 2008
Se c’è un fatto che nessuno, anche i più acerrimi avversari dell’intervento in Iraq, può contestare è rappresentato dall’enorme mole di materiale sulla guerra messa a disposizione dell’opinione pubblica da parte del governo americano. Anche i militari, che per formazione professionale più di tutti sono abituati a muoversi tra gli arcana imperi, hanno imparato che la forza della democrazia sta nella discussione, nel mostrare ai cittadini la realtà, fornendo loro, e agli opinion leader, gli elementi di analisi e giudizio. Solo così è possibile tenere assieme e unita una società, le varie istituzioni e gli elementi che la formano, dall’esercito al mondo dei mass media e agli elettori, evitando incomprensioni che la lunghezza e la difficoltà del conflitto inevitabilmente porta con sé e che si possono trasformare in profonde linee di frattura.
Ecco quindi uscire nell’arco di pochi giorni una serie impressionante di lavori, differenti certo per importanza e voluminosità, ma tutti di assoluto rilievo. Tra i più degni di nota troviamo il secondo volume ufficiale, di ben settecento pagine, sulla storia del conflitto iracheno, intitolato “On Point II. Transition to the New Campaign: The United States Army in Operation IRAQI FREEDOM May 2003-January 2005”; la trascrizione della conferenza “Counterisurgency in modern Warfare”, svoltasi lo scorso luglio e moderata da David Kilcullen, l’ufficiale australiano, impersonificazione teorica del surge e consigliere del generale Petraeus; un manuale a cura del Dipartimento di Stato per i funzionari pubblici sulla contro insorgenza, “Counterinsurgency for U.S. Government Policy Makers. A Work in Progress”; e infine, la pubblicazione il 28 luglio dell’ultimo commento, dedicato proprio alla presentazione del manuale governativo di cui sopra, di una serie intitolata “The Rise of the Counterinsurgency”, composta da ben otto lunghi articoli apparsi sul The Washington Indipendent, il cui autore è Spencer Ackerman, giornalista oggi non certo a favore della guerra, che riporta lo scoop della dichiarazione dello stesso Kilcullen sulla stupidità della scelta di invadere l’Iraq.
C’è l’imbarazzo della scelta insomma insomma. Ma per importanza della fonte e per peso, qui riferiremo del volume a cura di un gruppo di ben cinquanta storici militari (gruppo di studio sulle operazioni contemporanee), che ha lavorato su fonti non secretate e raccogliendo duecento interviste a protagonisti. Se scrivere di storia è difficile, fare la storia mentre essa è in corso, e non sapendo come vada a finire, è una ben altra faccenda. E senza tanta falsa umiltà, i curatori di “On Point II” si rifanno alla tradizione della grande cronaca di guerra, a Tucidite.
Il libro copre il periodo che va dall’annuncio del presidente Bush della fine dei combattimenti, il primo maggio 2003 a bordo della portaerei Lincoln, alle elezioni nel gennaio 2005. Con candore, i curatori ammettono che nessuno nell’euforia di quei giorni di maggio avrebbe mai pensato di scrivere questa storia. L’attesa di tutti, politici, militari, analisti era che le forze Usa di lì a poco avrebbero lasciato l’Iraq agli iracheni.
Le pagine sono una impietosa disamina degli errori commessi dall’amministrazione americana. Il primo, terribile, consiste nel non aver previsto in nessun modo il disfacimento delle istituzioni statali irachene a seguito della deposizione di Saddam e il conseguente compattarsi della società su linee tribali e religiose, fattore che sarà all’origine del caos, dell’insorgenza prodotta da Al Qaida e dalle varie bande e milizie sciite. E ciò nonostante l’amministrazione americana avesse messo sotto pressione gruppi di studio diversi tra loro.
Il secondo, è l’aver favorito lo stato di anarchia appena detto, creando addirittura i motivi per il reclutamento dei terroristi, attraverso la debaathificazione e lo scioglimento dell’esercito. A proposito del potere politico, le scelte fatte in quei primi mesi dagli Stati Uniti si riveleranno fondamentali per il rapporto tra i vari gruppi etnico tribali e religiosi, tra le varie comunità e istituzioni ed al rapporto tra quest’ultime e la popolazione. Nei mesi tra maggio e agosto si aprì per Washington una finestra di opportunità che fu dissipata in modo maldestro e sciocco, mentre crescevano i segni e le azioni di rivolta dell’emergente “network di insorgenza” sorto in un vuoto di potere spaventoso.
A complicare le cose, a maggio vi fu la decisione di Bush di rimpiazzare, solo dopo tre settimane di lavoro sul campo, “l’ufficio per la ricostruzione e l’assistenza umanitaria” (ORHA) con la CPA (Coalition Provisional Autorithy), nominandone a capo Paul Bremer III. Alla fine del gennaio 2003, cioè alla vigilia dell’invasione, Rumsfeld aveva creato infatti l’ORHA con a capo il generale Jay Garner che si era messo subito a lavoro, ma l’agenzia “mancava in modo significativo di esperienza diplomatica e disponeva di comprensione limitata del Medio Oriente”. La CPA nasce invece con il compito ben più ambizioso di guidare l’Iraq verso il futuro e quindi ha come obiettivo il coordinamento degli sforzi con il comando militare e il mondo politico iracheno.
Il 16 maggio la CPA emanò l’ordine numero 1 sulla “De-Baatificazione della società irachena” che rimuoveva dalla vita pubblica i vertici ai primi quattro livelli del partito Baath e anche quelli a livello più basso se ricoprivano incarichi nella pubblica amministrazione. Il 23 maggio, arrivò l’ordine numero 2 sulla “Dissolvimento dell’esercito” che scioglieva tutte le strutture militari e di intelligence, mandando a casa senza lavoro centinaia di migliaia di soldati. In pratica con un colpo solo, Paul Bremer aveva decapitato la burocrazia rendendo la macchina statale incapace di funzionare in tutti i settori dalla sicurezza ai trasporti, creato un numero spaventoso di disoccupati.
Con l’aggravante che, a pagare in prima persona il prezzo di queste scelte, fu un singolo gruppo etnico religioso e tribale. I sunniti infatti fin dalla nascita dell’Iraq avevano detenuto il potere e le nuove decisioni americane non potevano altro che creare la percezione che nel nuovo Iraq sciita e curdo non ci sarebbe nessun stato spazio per la loro etnia. Non può destare nessuna meraviglia il fatto conseguente che proprio in questi regioni sorgerà, prima, la resistenza di stampo baatista contro gli USA e, in seguito, proverà ad insediarsi Al Qaida, reclutando tra le centinaia di migliaia di disoccupati i propri soldati. A Bremer si deve ancora la scelta infausta di rimandare a data da stabilire la formazione del Governo iracheno ad interim con la conseguenza di rendere gli americani e gli inglesi “forze di occupazione”, fatto sancito anche dalla risoluzione ONU 1483 del 22 maggio 2003. Contraddizione stridente. Da una parte gli Stati Uniti reclamavano tutto il potere, da un’altra vollero dare un segno potente e liberale di rottura con il vecchio regime di Saddam, agendo come mai nessuna potenza coloniale si era comportata (smontando le basi del vecchio stato), dall’altra tradirono la stessa decisione delle Nazioni Unite che li rendeva responsabili del benessere degli iracheni fino a quando essi non fossero stati in grado di auto-governarsi. Una potenza occupante, de jure e de facto, suo malgrado, indecisa e impreparata su tutto! Solo il 13 luglio 2003 la CPA fu affiancata dal “Consiglio governativo iracheno”, entità semi autonoma creata per aiutare le forze di occupazione a trasferire la sovranità politica agli iracheni.
Il terzo, essersi lasciati sorprendere impreparati dall’anarchia irachena seguita alla deposizione di Saddam. L’indecisione, lo scoordinamento tra agenzie governative, la non pianificazione e comprensione della fase post Saddam, l’aver confinato nei meandri della dottrina le operazioni di stabilizzazione e ricostruzione si fecero sentire anche sul piano delle forze della coalizione militare il cui ruolo rimase “non chiaro”, sempre comunque entro l’orizzonte di un ritiro in grande stile nel settembre 20003. In pratica, le modalità delle operazioni di stabilizzazione e sicurezza furono demandate all’iniziativa individuale dei singoli comandanti. Molti è vero si erano formati le ossa nelle operazioni di peace keeping durante le missioni in Bosnia, Kossovo, Somalia, che però non erano state, se non in minima parte, operazioni di contro insorgenza; comunque sempre esperienze in grado di fornire elementi e sensibilità di gestione politico militare in situazioni complesse a migliaia di soldati e quadri dell’esercito americano.
Soprattutto completamente insufficienti e impreparate risultarono le truppe ad affrontare i fenomeni di insorgenza. La guerra contro i Talebani in Afganistan con l’operazione Enduring Freedom nell’ottobre 2001 aveva rafforzato infatti, in fase di preparazione dell’invasione dell’Iraq, le convinzioni del segretario alla difesa Rumsfeld a proposito della guerra leggera, dell’apporto dell’high tech negli affari militari. Grazie all’avvento dell’informatica e della sua applicazione ai sistema d’arma, la nuova “rivoluzione negli affari militari” (RMA, Revolution in Military Affairs) avrebbe permesso di risparmiare vite dei propri soldati, dei nemici e dei civili innocenti, oltre ovviamente al tempo. Una combinazione di aviazione, di truppe speciali americane assieme alle forze locali dell’Alleanza del Nord aveva avuto ragione in poco tempo di Al Qaida e del Mullah Omar, anche grazie alla cieca scelta strategica degli afgani di affrontare gli eserciti attaccanti sul terreno dello scontro convenzionale, in campo aperto.
Sembrava la quadratura del cerchio, truppe professioniste super specializzate, una precisione incredibile assieme ad un enorme potenza di fuoco unita ad una capacità di manovra orami rodata e ad un supporto logistico mai visto, rendevano l’esercito americano una formidabile macchina da guerra che niente e nessuno poteva fermare, capace di colpire ed aver ragione di nemici a centinaia di migliaia di chilometri da casa in pochi giorni e con un numero di perdite senza confronti con le guerre precedenti.
Lo storico militare John Keegan arriverà a descrivere l’offensiva come “una campagna fulminante, senza precedenti per la velocità e incisività”. Ma se tutti questi elementi risultano necessari e sufficienti per distruggere il centro di gravità dell’avversario, per far collassare il nemico, la RMA si rivela di scarsa consistenza, troppo leggera, per garantire la pace e la sicurezza, la ricostruzione in un paese occupato. In questo caso, per sconfiggere insorgenti, terroristi e banditi ancora conta il fattore umano, gli uomini, gli “scarponi sul suolo”, per tradurre un proverbio americano. Ancora è importante lo sceriffo con la stella. “Vincere la pace stabilizzando e ricostruendo l’Iraq” si rivelava per gli Stati Uniti un compito ben più difficile che sconfiggere il nemico sul campo di battaglia. “Pochi, se non nessuno, alla Casa Bianca, al Dipartimento della Difesa, nell’esercito americano avevano previsto la lotta incombente per creare un nuovo Iraq al posto del regime di Saddam come la più grande sfida dell’operazione Iraq Freedom”.
Il 19 agosto 2003 è il giorno simbolo della nascita dell’insorgenza irachena. Dopo mesi di attacchi continui alle forze alleate (a luglio se ne conteranno 500), un camion bomba scoppia dentro il complesso delle Nazioni Unite, uccidendo 22 persone tra cui il capo missione dell’ONU Sergio Vieira de Mello. Da qui, la decisione da parte dell’agenzia internazionale di lasciare l’Iraq.
Da quel momento, la situazione si fece sempre più difficile con gli americani nella scomoda posizione di forze di occupazione accusati anche dagli “amici” sciiti di non voler lasciare il potere, stretti tra le raccomandazioni del grande ayatollah Sistani che invitava a indire immediatamente l’elezioni (che avrebbero visto la vittoria della maggioranza sciita), la rivolta armata di Motqada al Sadr e la richiesta da parte di curdi e sunniti di emanare una costituzione che garantisse i diritti delle minoranze etniche. Ma organizzare libere elezioni in un paese senza nessuna tradizione democratiche e per di più in mezzo ad una rivolta armata non è affare da poco.
John Nagl e Paul Yingling avevano ammonito gli stati maggiori e la pubblica opinione che tutto il sistema paese, dai generali ai politici, non era adeguato a combattere guerre lontane, esotiche, asimmetriche contro fantasmi, nemici invisibili, per motivi che alla lunga il popolo americano riteneva non valessero la pena del sacrificio dei loro figli migliori. E l’inadeguatezza foriera di sconfitte brucianti era lì davanti a tutti a partire dal Vietnam; tanto può l’unione di mancanza di passione, convinzione, resistenza del proprio popolo e di incapacità dell’establishment politico-militare di elaborare strategie opportune.
Gli errori sono evidenti, sul tappeto ed ora chiare incominciano ad essere anche le cause che li hanno fatti commettere. Quello che adesso è però di conforto è sapere che l’unico impero liberale è capace di auto critica e di rivedere in corsa la propria strategia, fatto più unico che raro nella storia della contro insorgenza. Ora che la fase della lotta ad Al Qaida sembra chiusa, rimane da vincere la pace, la possibilità di un Iraq federato, indipendente dall’Iran degli ayatollah, dove le diverse minoranze possano convivere l’una accanto all’altra, scacciando l’incubo libanese.