Tutti gli uomini del conte di Cavour

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Tutti gli uomini del conte di Cavour

11 Luglio 2010

Al di là dell’immagine paciosa tramandata dall’iconografia, il conte di Cavour era un uomo inquieto. Geniale, ironico, malinconico, ossessionato dai suoi pallini; infaticabile tessitore di trame politiche e relazioni personali. Doti e ubbie che si approfondirono e si accentuarono nel triennio che va dal 1858 al 1860, la fase decisiva della sua carriera politica e dell’intero Risorgimento italiano.

Una ricostruzione puntuale degli eventi di quegli anni, dalla prospettiva del primo ministro del Regno di Sardegna, è contenuta nel carteggio tra Cavour e Costantino Nigra, giovane e brillante diplomatico, suo segretario ed emissario a Parigi. Lo scambio di lettere, iniziato nel 1858, in concomitanza con l’invio di Nigra a Parigi per trattare l’alleanza del Piemonte con la Francia di Napoleone III, si protrae fino alla primavera del 1861, agli ultimi mesi di vita di Cavour. Tra analisi e progetti, giudizi e ripensamenti, dubbi e ferma determinazione, è una testimonianza inestimabile dei contrastanti stati d’animo del conte, dei passaggi delicati che lo condussero al trionfo politico, delle traversie che lo spinsero sull’orlo di un esaurimento nervoso, per alcuni a un passo dal suicidio.

Pragmatico e diffidente come tutti i grandi uomini di Stato, Cavour amava circondarsi di collaboratori fidati, lucidi e discreti quanto lui, quasi un’emanazione della sua personalità. Con questi emissari si teneva in contatto costante: amava scrivere e sfogarsi scrivendo, confrontarsi, triturare e rimodellare le linee del suo ragionamento politico. Costantino Nigra, l’altra metà del famoso carteggio, fu forse il suo confidente prediletto. Quando iniziò a profilarsi l’eventualità di un’alleanza militare tra la Francia e il Regno di Sardegna, Cavour lo inviò a Parigi per spianare la strada alle trattative. Senza alcuna veste ufficiale, Nigra condusse i negoziati preliminari agli accordi di Plombières tra abboccamenti nei giardini del Louvre e lettere cifrate al suo “mandante”: prassi consueta per un’epoca in cui la diplomazia si faceva nei salotti, nei vestiboli e magari nelle alcove.

Fu Nigra a informare Cavour di quanto pesasse nella stipulazione di un’alleanza militare tra Francia e Piemonte l’affare del matrimonio tra Girolamo napoleone, cugino dell’imperatore, e la figlia quindicenne di Vittorio Emanuele II, Clotilde. La questione, apparentemente confinata nella cronaca rosa, era in realtà delicata: Girolamo Napoleone, quasi quarantenne, si presentava come un playboy intelligente e raffinato, ma libertino e ormai senz’arte né parte, per aver perso il titolo di Principe Ereditario a seguito della nascita di un figlio di Napoleone III. La principessa Clotilde non era disposta ad immolarsi e Vittorio Emanuele stentava a fare la voce grossa, ma Cavour non si sottrasse al ruolo ingrato di tiranno, anche a costo di attirarsi “l’odio di una ragazzina, in nome del “santo scopo” dell’unificazione.

Fu ancora Nigra a informare Cavour sulle esatte intenzioni di Napoleone: cacciare l’Austria dalla penisola, formare un regno dell’Alta Italia che riunisse Lombardia e Veneto sotto lo scettro del Piemonte, ma evitare nel modo più assoluto che la guerra assumesse un carattere “rivoluzionario”. All’inizio di gennaio del 1859 Nigra sottopose all’imperatore, per volere di Cavour, il discorso da questi redatto, che Vittorio Emanuele II avrebbe pronunciato il 10 gennaio per l’apertura del parlamento. Napoleone III trovò che il passaggio “…costanti nel fermo proposito di compiere la missione che la Divina Provvidenza ci ha affidata” fosse “un po’ forte” e propose come modifica “pur restando fedeli ai trattati non possiamo restare insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”. Cavour scrisse a Nigra: “Ma come? L’imperatore trova troppo forte il nostro paragrafo e ce ne propone un altro cento volte più forte? Fategli presente che quel grido di dolore scatenerà il finimondo”. E in effetti, con lo zampino della buona sorte e il concorso insperato dell’ingenuità austriaca, il finimondo accadde.

In pochi mesi, dentro un vortice di avvenimenti, il processo unitario passò dallo stallo all’anticamera del successo. Le aspettative di Cavour furono in parte frustrate dall’armistizio di Villafranca: Napoleone III , preoccupato dai segnali di insofferenza delle potenze europee, dalle mire (virtuali) del conte sullo Stato Pontificio e dalla scarsa consistenza delle forze militari sabaude, si fermò prima di dare l’assalto alle fortezze austriache del Quadrilatero. Il Veneto restò all’Austria ma al Regno di Savoia passava la Lombardia, e non solo. Nigra venne chiamato di nuovo in causa per gestire insieme al segretario di Napoleone, Artom, la complessa vicenda delle annessioni della Toscana, dei ducati di Modena e Parma e delle cosiddette Legazioni pontificie. Nella primavera del 1860, poi, Garibaldi tentò l’azzardo che doveva diventare il suo trionfo militare e Cavour, colto di sorpresa, non poté far altro che osservare da lontano l’evolversi della vicenda. Commentandola, al solito, in un fitto scambio di lettere col suo collaboratore.

Su Garibaldi Nigra raccolse in quei mesi le confessioni più sincere di Cavour. In piena spedizione dei Mille il conte gli scrisse che “Garibaldi ha reso all’Italia i più grandi servigi che un uomo potesse renderle: ha dato agl’italiani fiducia in se stessi e ha dimostrato all’Europa che essi sanno battersi e morire per riconquistarsi una patria”. Più tardi, quando Garibaldi si fece dittatore di Napoli e Mazzini provò a interferire coi suoi disegni repubblicani e il popolo napoletano inscenò dimostrazioni in favore di Vittorio Emanuele, Cavour non esitò a esprimere la sua soddisfazione: “L’immensa maggioranza della popolazione è con noi: Gianduia è furioso contro Garibaldi. Se cene fosse bisogno la Guardia Nazionale di Torino marcerebbe contro di lui. I soldati di Fanti e Cialdini non domandano di meglio che di sbarazzare il Paese dalle camicie rosse. Il Re è deciso a farla finita, e io stesso non esiterei”. Giorno dopo giorno Cavour si insinuò nel corso dell’impresa garibaldina, dapprima cercando di limitarne i successi, poi adoperandosi per procurarle la necessaria copertura diplomatica e infine trovando il modo di imprimere su tutta la vicenda il sigillo della monarchia sabauda.

Nei primi mesi del 1861 Nigra fu impegnato su altri due fronti delicati. Quando Cavour avviò con la Santa Sede delle trattative per giungere a una soluzione negoziale della questione romana, il giovane diplomatico ebbe il compito di fare da intermediario con la Francia, di fatto “tutore” dello Stato Pontificio. Da colloqui privati con Girolamo Napoleone capì che l’imperatore aveva tutto l’interesse a insabbiare la trattativa avanzando proposte tortuose e irrealistiche. Con rammarico lasciò intendere al conte che il suo progetto era destinato al fallimento. Poi passò a Napoli, per constatare il degrado dell’ex capitale del regno borbonico. Pur ammettendo la situazione speciale del Napoletano – ricettacolo di corruzione, kasbah variopinta di consorterie, bande e fazioni politiche in lotta tra loro – consigliò a Cavour di non dar corso al sistema delle autonomie regionali dal quale sembrava tentato. Uno Stato forte e centralizzato era assolutamente indispensabile: “se no siam perduti”, scriveva.

Dopo la proclamazione dell’unità d’Italia fu nominato ufficialmente ambasciatore a Parigi. Alla morte di Cavour il suo nome circolò tra quelli dei possibili successori del conte, ma fu subito scartato per la scarsa popolarità del personaggio e la sua estraneità all’ambiente parlamentare. Il “diplomatico dell’unità d’Italia” restò in Francia, a impegnare le sue arti e la sua esperienza al servizio del nuovo Stato. Nel 1864 negoziò con Napoleone III il trasferimento della capitale italiana da Torino a Firenze (che sanciva la “spiemontizzazione” e nel contempo l’implicita, temporanea rinuncia a Roma) in cambio del ritiro del presidio francese dalla Città Eterna. Nel 1866 gestì la mediazione di Napoleone tra l’Italia e l’Austria per la consegna del Veneto allo Stato italiano tramite la Francia, al culmine di una bruciante quanto necessaria umiliazione diplomatica.

Rimase a Parigi fino al 1876, assistendo al crollo del regime napoleonico e alla nascita della Terza Repubblica, per i più maliziosi intrecciando addirittura una “liaison” con l’imperatrice Eugenia (che aiutò a fuggire dopo la disfatta di Sedan), poi fu trasferito a san Pietroburgo e da qui a Londra (nel 1882) e infine a Vienna (nel 1885). Diventato re d’Italia, Umberto I gli concesse gli onori che il padre gli aveva negato, per via del suo stretto sodalizio con Cavour. Lo nominò cavaliere della Santissima Annunziata e gli attribuì il titolo di conte, trasmissibile ai suoi eredi. Nel 1887 Crispi gli offrì la carica di ministro degli esteri, ma Nigra rifiutò: per convinzioni politiche era troppo distante dal presidente del consiglio, per indole prediligeva la discrezione e la stabilità del lavoro diplomatico. Alla corte degli Asburgo restò fino al 1904, quando infine la sua carriera si concluse, in mezzo alle prime avvisaglie dell’espansionismo serbo e della questione albanese, mentre i Balcani si avviavano a diventare la “polveriera dell’Europa”. Tre anni più tardi morì a Rapallo.

Poeta, filologo, Costantino Nigra fu un formidabile “commis d’Etat”, un funzionario pubblico diligente e avveduto, uno dei grandi esecutori che nell’ombra svolsero la trama del Risorgimento italiano. A Cavour restò fedele sempre: nel 1894 acquistò e bruciò un pacco di lettere, dal contenuto “piccante”, indirizzate dal conte all’amante Bianca Ranzani. Negli ultimi anni di vita si dedicò alla stesura delle sue memorie, in cui raccontava, da un punto di vista inedito, i retroscena del Risorgimento. Ma pochi giorni prima della sua morte il manoscritto sparì misteriosamente. Qualche studioso inconsolabile ne attende ancora la ricomparsa ma è probabile che lo stesso Nigra, insoddisfatto del lavoro, lo desse alle fiamme in un ultimo atto di responsabilità. Mettere a nudo i protagonisti dell’unità, i loro intrighi, magari le loro piccole miserie umane, svelare i segreti dell’alcova o della camera caritatis avrebbe aggiunto al più un tocco di malizia alla vicenda risorgimentale, senza alterare di una virgola la sostanza dei fatti.