Tutto ciò che occorre all’Italia per risalire (e uscire dalla crisi)

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Tutto ciò che occorre all’Italia per risalire (e uscire dalla crisi)

02 Novembre 2008

Non è un instant book sulla crisi economica di queste settimane (anni?). Eppure, “Centomila punture di spillo”, libro scritto da Federico Rampini e Carlo De Benedetti, con la collaborazione di Francesco Daveri, parla largamente dell’attuale recessione, che si sta espandendo su scala (quasi) mondiale e i cui segnali erano evidenti già un anno fa (lo scandalo dei mutui subprime scoppia nel giugno 2007).

Ancor di più, il saggio è una fredda analisi – e non per forza catastrofica – di quello che si deve fare “il giorno dopo la crisi”. Il libro, infatti, spazia da Est a Ovest del mondo (e qui emerge soprattutto la doppia veste di Rampini, corrispondente di Repubblica oggi in Cina, fino a pochi anni fa negli Stati Uniti) ma poi riannoda i fili guardando all’Italia e rivolgendo al nostro Paese le sue conclusioni per il futuro.

Le “punture di spillo” del titolo simboleggiano gli stimoli che possono e devono scuotere gli italiani, a tutti i livelli – sociale, culturale, imprenditoriale, nel campo della ricerca – a prescindere da quello che ha fatto e farà la politica. In caso contrario, non ci sarà scampo, l’Italia perderà tutte le sfide globali dei prossimi anni.

Lo si capisce fin dall’introduzione. Così scrivono gli autori: “Il cielo sopra l’Italia è immenso… è un mondo che sta cambiando a velocità inaudita, con nuovi protagonisti molto più grossi di noi, antichi equilibri che vengono rotti, gerarchie di potere stravolte all’improvviso”.

La crisi lascerà segni profondi e destinati a durare nel tempo. Con ogni probabilità verrà accelerata la caduta dell’impero occidentale (americano) a vantaggio dei cosiddetti “Paesi emergenti”, un club molto più affollato del duo Cina-India. Su questo ultimo aspetto, sono illuminanti i dati forniti su Dubai “la storia di maggior successo nel mondo arabo: un polo di eccellenza che non si basa sul petrolio bensì sulla capacità di attirare capitali e know how nella finanza e nel turismo. Dubai ha il tasso di crescita urbano più alto del mondo, entro il 2020 le compagnie aeree del Golfo compreranno 875 nuovi apparecchi, un’espansione seconda solo a quella cinese”.

Sembra inevitabile, dunque, la profezia dell’economista britannico Angus Maddison, puntualmente citata nel libro: oggi l’Asia produce il 35% del Pil mondiale contro il 40% di Europa e Stati Uniti ma nel 2030 i valori saranno ribaltati, 50% contro 30%.

Nonostante tutto, però, “non siamo alla vigilia dell’Apocalisse – si legge ancora nelle prime pagine del libro – L’avvento di questo Nuovo Mondo non è un susseguirsi di catastrofi senza scampo”.

L’Italia, è vero, ha un grosso svantaggio rispetto agli altri Paesi occidentali. Mentre, negli anni 90, l’economia europea e quella americana viaggiavano a ritmo sostenuto, la nostra procedeva al piccolo trotto. Il ristagno attuale, dunque, ci pesa e costa il doppio.

Rispetto agli Stati Uniti, però, abbiamo un handicap psicologico in meno. “L’America è più vulnerabile: perché esce dal secolo del suo splendore” e non può più permettersi di dire: “Il dollaro è la nostra moneta ma il vostro problema” (celebre battuta, pronunciata nel 1971 da John  Connally, all’epoca segretario al Tesoro di Washington). Quindi per gli Stati Uniti “non è facile adattarsi a un cambiamento di scenari così radicale”. Per l’Italia questo contraccolpo non esiste.

Su queste premesse, il nostro Paese deve stare attento “a non sbagliare epoca, a non sbagliare ideologia, a non sbagliare bersaglio”.

Deve scrollarsi di dosso alcuni vizi cronici: eccessivo provincialismo, sfiducia nelle proprie risorse, pessimismo, sperpero di denari pubblici.

Non deve più perdersi in battaglie di retroguardia sui dazi nei confronti della Cina, mentre la Germania consolida le sue posizioni sul mercato asiatico. 

Non deve più farci condizionare da certi pregiudizi ancora in circolazione, che “Centomila punture di spillo” ha il merito di smascherare. Uno su tutti, l’idea che lo sviluppo cinese sia merito dei bassi salari, dello sfruttamento disumano della manodopera eccetera, eccetera. Se così fosse, come si spiegherebbe che Microsoft, all’inizio del 2008, ha deciso di creare un campus a Pechino, nel quale assumerà 5.000 ricercatori cinesi? Il tutto mentre al rivale Ibm oggi vanta 100mila dipendenti nei Paesi del cosiddetto Bric (Brasile, Russia, India, Cina).

Sono tanti gli esempi vincenti a cui ispirarsi. Tra le tante storie esemplari, c’è quella di Alberto Candiani, manager nel settore tessile, la cui specialità è il denim, il tessuto usato per fare i jeans. Il denim “semplice” (5 miliardi di metri all’anno) è monopolio dei produttori asiatici e sudamericani. Ma quello di alta qualità, quello che Levi’s pretende per i suoi pantaloni, è nelle mani di Candiani, che produce il 12% dei 300 milioni di metri all’anno.

Cominciamo a esportare la nostra qualità e le nostre regole. E non facciamoci intimorire dall’ascesa irresistibile dei nuovi ricchi. Non è tutto oro quello che luccica dalle loro parti. Altrimenti non si spiegherebbero scandali clamorosi come il latte contaminato alla melamina in Cina (presentata nel libro come la prima “superpotenza povera” nella storia, con la seconda economia al mondo ma il 100esimo reddito pro capite) o le terribili sperequazioni che lacerano India e Brasile.