Tutto quello che non abbiamo capito sulla Rivoluzione khomeinista

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Tutto quello che non abbiamo capito sulla Rivoluzione khomeinista

Tutto quello che non abbiamo capito sulla Rivoluzione khomeinista

01 Aprile 2010

Quella rivoluzione (khomeinista, ndr) che fu corale come poche, che fu popolare come nessuna nel Novecento, che coinvolse tutte le forze politiche iraniane, oggi si è sedimentata in un enorme blocco
sociale costituito da milioni e milioni di iraniani che esprimono consenso a un regime feroce e letteralmente apocalittico. Un regime che si caratterizzò da subito con una vera e propria vendetta degli uomini sulle donne, alle quali tolse quel poco di parità di diritti che avevano conquistato (unico vanto del regime dello scià), per imprigionarle con le catene di una legge coranica umiliante e vergognosa. Catene alle donne che sono il perfetto simbolo della società, dell’«Uomo nuovo islamico» che vogliono far trionfare.

Un regime che forgiò una vera e propria «religione di morte» che ha più contatti di quanto non si pensi con l’ideologia nazista, incluso il Führerprinzip, incluso il culto della morte, incluso l’odio per l’ebreo «seminatore di complotti». Un consenso popolare a un regime perfettamente simboleggiato da un Mohammed Ahmadinejad che fonde in un tutto unico antisemitismo viscerale, la proclamata volontà di distruggere Israele e di denunciare il «complotto ebraico» planetario che ne permise la nascita, «inventando» la Shoà, con la repressione più feroce del dissenso interno, con il progetto di dotarsi di un arsenale di bombe atomiche.

C’è dunque un rapporto diretto tra l’ideologia, la religione della morte che iniziò a essere forgiata in quella rivoluzione, i suoi obiettivi apocalittici e la costruzione della bomba atomica, il cui fine va ben oltre il rafforzamento dell’Iran quale potenza regionale. Ma purtroppo pochi analisti afferrano questo nesso. L’Iran post-khomeinista di oggi pretende più di quanto non abbia compreso Barack Obama. Non gli basta ottenere un riconoscimento internazionale della propria leadership sulla scena regionale e mediorientale, anche se sicuramente persegue questo obiettivo. Non mira solo a vedere rispettato dall’Occidente il proprio smisurato ego nazionalista. Se questa fosse la sua unica aspirazione, in parte – ribadisco: in parte – sarebbe anche opportuno e saggio riconoscerglielo. Ma non è affatto questa l’unica aspirazione dell’Iran.

La sua vera aspirazione è esportare la rivoluzione islamica, rompere il cerchio dell’islamismo in un paese solo a cui fu costretto dall’attacco «controrivoluzionario» di Saddam Hussein nel 1980. Su questo punto, sulla volontà di universalizzare la rivoluzione islamica, sbagliano analisi le cancellerie occidentali, che commettono oggi lo stesso errore commesso da Chamberlain nel 1938 a Monaco, quando si mosse nella convinzione che Hitler si accontentasse del riconoscimento del suo ruolo di potenza nazionale e della conseguente mano libera per annettersi la Cecoslovacchia. Errore non di viltà, ma di incomprensione dell’essenza dei progetti dell’avversario che non era solo la «terra», lo «spazio vitale», ma che puntava a forgiare nei forni di Auschwitz una nuova umanità Judenfrei, libera dalla «zavorra degli ebrei».

Ma se oggi, per paradosso, l’Occidente – come fece Chamberlain regalando nel 1938 a Hitler la Cecoslovacchia – abbandonasse al suo destino Israele (e purtroppo non manca chi se lo augura in Europa, e non solo nell’estrema sinistra), nulla cambierebbe nelle strategie iraniane. Anzi. Esattamente come allora, questo scambio darebbe carburante alla rivoluzione khomeinista perché la missione dell’Iran islamico è la costruzione, attraverso l’idolatria della morte, dell’Uomo Nuovo, dell’Utopia.

L’arsenale atomico cui l’Iran sta lavorando è ben più che la base per una «deterrenza» regionale che moltiplichi per mille il peso nazionale dell’Iran (come si illudono quei consiglieri di Obama che gli stanno proponendo di accettare questa dinamica). È anche questo, ma è soprattutto una dimensione nuova, un’invenzione che ha del fantastico e dell’orrorifico: quella a cui puntano l’ayatollah Khamenei e Ahmadinejad è un’atomica al servizio della rivoluzione islamica dal basso, che attiri con la sua immensa potenza le coscienze dei musulmani e li spinga a ribellarsi ai «falsi Califfi», essenza originaria dello sciismo. Una bomba che sia di copertura e di stimolo al contagio della rivoluzione khomeinista in tutto il mondo islamico, a iniziare dal Golfo, dal Libano e da Gaza, e che elimini Israele dalle carte geografiche.

Questa è la nuova «dottrina» che l’Iran ha messo in atto. «Dottrina» che purtroppo ha successo, perché da quando Khamenei, tramite Ahmadinejad, ha iniziato ad attuarla, l’Iran ha preso il controllo del sud del Libano con Hezbollah e di Gaza con Hamas, come autorevolmente ha testimoniato lo stesso Abu Mazen che ha dichiarato: «il processo decisionale di Hamas è nelle mani di Teheran». Questo è dunque il lascito della rivoluzione islamica del 1978-79 in Iran. Un’evoluzione sconvolgente, logico sviluppo della novità ideologica più clamorosa di quella rivoluzione: la religione della morte, l’esaltazione del martirio islamico, del kamikaze.

È l’irrompere sulla scena di un nuovo nefasto totalitarismo: l’ideologia del martirio, non già extrema ratio del fedele combattente, ma dovere specifico, massima aspirazione di ogni credente musulmano. Religione di morte seguita da una massa impressionante di migliaia e migliaia di kamikaze. Scisma – sì: scisma – nell’Islam e nello stesso mondo sciita, che ha largamente attecchito nello stesso mondo sunnita. È la prima ideologia totalitaria di massa sorta non in alveo laico, come il nazismo e il fascismo, il comunismo, ma nel solco di una religione e di una liturgia più che millenaria. Di questo esito non colsi nessun germe quando seguii, entusiasta, la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini a Teheran, preso – e confuso – dal carattere assolutamente non violento di quella rivolta. Ingannato dal fatto – peraltro incontestabile – che mai in quei mesi Khomeini avesse dato il minimo ordine di rivolta violenta.

Oggi si legge una chiara linea di continuità tra quelle manifestazioni di allora, che descrissi negli articoli ripubblicati in queste pagine, e il consenso enorme, forse minoritario, ma tuttavia immenso, che Ahmadinejad e gli ayatollah oltranzisti oggi riscuotono ancora – va detto: ancora – in Iran. Sicuramente Ahmadinejad non ha avuto i 24 milioni di voti che – grazie a evidenti brogli – vanta nelle elezioni presidenziali del giugno 2009, ma certo si avvicina ai 15, se non ai 20 milioni di elettori che hanno fiducia in lui. Per trovare un paragone, bisogna, di nuovo, riandare agli anni Trenta, al consenso di massa nei confronti del nazismo e del fascismo e della loro apocalisse promessa. Per imparare a leggere il pericolo iraniano, bisogna tenere presente la lezione di Renzo De Felice e di François Furet, sul rapporto tra dittature totalitarie e consenso popolare. Un’evoluzione possibile che allora non compresi, non intuii, che anzi fraintesi totalmente. Un terribile lascito delle giornate del 1978, che tutti abbiamo sofferto nel vedere le immagini su Internet dell’agonia di Neda nel giugno del 2009.

Perché lo scandalo di quella morte non è solo nella vita straziata di quella giovane che rantola sull’asfalto, tra le urla del padre. Lo scandalo più misterioso è altrove: nel suo assassino. Non uno sgherro, uno scherano: ma un giovane, un ventenne, un bassiji, replica contemporanea di Hitlerjugend, che l’ha uccisa sicuro di ammazzare il demonio che lei, ai suoi occhi, impersonava. I semi di questa deriva – è ovvio – erano tutti presenti nei giorni del 1978 e del 1979.

I semi di questa deriva – è ovvio – erano tutti presenti nei giorni del 1978 e del 1979. Eppure – e purtroppo – non fui il solo a non coglierli. I miei errori di allora erano confortati dal fatto che tutte, ma proprio tutte le forze politiche e culturali iraniane riconoscevano la leadership di Khomeini, inclusi i comunisti del Tudeh, inclusi i colti intellettuali cristiani armeni dal fluente francese della «rive gauche» parigina, inclusi i liberali seguaci di Mossadeq che esprimevano anzi la gran parte della dirigenza rivoluzionaria della prima fase, che andò al potere dopo la rivoluzione.

Se dovessi riassumere in due parole l’originalità di quella rivoluzione – e l’origine più profonda dei miei errori – potrei dire che, oltre a non cogliere per nulla il valore terribile della religione di morte che si affermava con la cultura del martirio, leggevo soprattutto la rivoluzione trionfante nello schema riproposto dalla rivoluzione di Parigi del 1789. Ma quella Teheran che avevo davanti agli occhi, invece, era Vandea, era religiosità pagana, rituale e fanatica di campagna (humus perfetto per far germinare l’intreccio tra autoritarismo e la «religione di morte» che sarà l’essenza della repubblica khomeinista), e quella piccola Parigi di intellettuali che ci spiegavano la rivoluzione, in realtà non contava nulla, storicamente, era debole, fragile.

Solo un anno dopo un grande intellettuale laico iraniano, Sayed Javadi mi spiegò (è l’ultimo brano che qui riproduco) quanto leggera, inconsistente fosse la presa di quei «mandarini» che sopravvalutavo e che speravo operassero un raccordo tra tradizione e modernità, tra Islam e Occidente. Tanto esile e isolata nel paese era quella élite che dirigeva in Iran la prima parte della rivoluzione che infatti, dopo aver espresso il primo governo rivoluzionario con Mehdi Bazargan (erede diretto di Mossadeq), Ebrahim Yazdi (che aveva anche la cittadinanza americana e come lui altri quattro ministri), Karim Sendjabi (presidente del Fronte Nazionale), Abolhassan Banisadr e Ahmad Salamatian, verrà spazzata via, anche fisicamente, dalla dirigenza della Vandea iraniana.

Una Vandea composta dai mostafazin, i diseredati, quelli che io chiamavo nelle mie corrispondenze «il popolo del fango», che aveva i suoi leader nell’ayatollah Behesti (poi ucciso in un attentato) e in alcuni hojatoleslam (grado inferiore agli ayatollah) che venivano dalla immensa provincia iraniana. Leader di quella capillare infiltrazione di uomini a lui fedeli con cui Khomeini aveva lavorato dal 1963, da quando era stato costretto all’esilio in Iraq per avere capeggiato la rivolta contro la modernizzazione delle campagne (che aveva peraltro prodotto quella urbanizzazione rapidissima e folle che aveva portato la Vandea a Teheran, gonfiandola fino a quattro, poi sei, oggi otto e più milioni di mostafazin). Tra loro, due sono tuttora le figure eminenti: Ali Khamenei (che nel 1989, dopo la morte di Khomeini, ne ha preso il posto come Guida della Rivoluzione), che io – primo occidentale – avevo intervistato a Mashad nel 1978 e Ali Rafsanjani (che fu il suo kingmaker nella partita per la successione a Khomeini e che ora lo contrasta).

Un gruppo dirigente periferico, ma profondamente radicato, con mille terminali nel paese, che mai avevamo notato quando noi giornalisti uscivamo dal Park Hotel e guardavamo la testa degli immensi cortei di Teheran. Una leadership nettamente antagonista a quella di Bazargan, Banisadr e allo stesso ayatollah Mahmud Taleghani, il più importante ayatollah di Teheran, che chiamava milioni di manifestanti nelle piazze. Behesti, Khamenei e Rafsanjani, arrivati a Teheran solo dopo il rientro di Khomeini dalla Francia, se ne se ne stavano defilati dentro l’università, ma sapevano muovere la Vandea e sapevano di rappresentare il vero pensiero di Khomeini, così diverso, opposto a quello che ci raccontavano Banisadr e anche Taleghani. Chi legge la lunga intervista – che qui ripropongo – a Banisadr, allora sconosciuto intellettuale che andai a trovare nel dicembre del 1978 nella più profonda banlieue, di Parigi si può rendere conto delle chimere che ci venivano proposte e di quanto queste nulla avranno a che fare con la rivoluzione trionfante.

L’illusione di una raccordo competitivo, ma in fondo solidale, tra Islam e modernità era l’asse portante del disegno di un Banisadr buon conoscitore di Gramsci, che però si infranse non appena lui stesso ebbe la più alta carica di potere nel paese, dopo Khomeini, e da Presidente della Repubblica divenne presto un esule che scampò per un pelo alla morte che Khomeini stesso aveva decretato.

La prima rottura tra i dirigenti che noi incontravamo (e che ci traducevano a modo loro i discorsi di Khomeini, spesso edulcorandoli al punto da stravolgerli) avvenne dunque sei mesi dopo la rivoluzione, nell’autunno del 1979, quando fu varata la Costituzione islamica. Nel linguaggio sciita – che ci veniva spiegato e che trovate in queste pagine in bocca a Banisadr, come a Taleghani – la scomparsa alla Storia del dodicesimo Imam (e i dodici Imam, per gli sciiti, sono coloro che interpretano il Libro e lo calano nella storia, sono la sede dell’esegesi della parola di Dio, la guida della comunità) comportava il fatto che il loro ruolo era diffuso nella umma, nella comunità dei credenti. Insomma, ci veniva detto – e lo potete leggere in queste pagine – che il Verbo, la parola di Dio, il Corano, devono essere inverati, testimoniati, dalla volontà liberamente espressa della comunità, del popolo dei musulmani, con pieno rispetto della libertà di pensiero dei non credenti, ebrei inclusi (e nei cortei popolari di quei giorni abbiamo visto sfilare anche migliaia di ebrei).

Questo era quanto teorizzava Ali Shariati, che fu l’ideologo di quella rivoluzione, questo ci ripetevano tutti. Ma quando Khomeini scrisse la Costituzione islamica della sua repubblica, ribaltò quel principio, negò al popolo dell’Islam (e ancor più a chi non è musulmano) ogni potere decisionale effettivo perché negò la sua sovranità e la attribuì solo al Dio Unico, stabilendo che, in assenza del dodicesimo Imam, il suo ruolo di Guida, l’esercizio terreno della sovranità di Dio, sarebbe stato ricoperto da una persona sola, dal Giureconsulto, da lui, il Rahabar, la Guida. Uno schema rigidamente neoplatonico (mutuato da Muhammad al Farabi, filosofo arabo vissuto a cavallo del nono e decimo secolo), una gestione del potere rigidamente a piramide (identico a quella della Città del Sole di Campanella), con il Filosofo depositario di tutto il sapere, confortato dall’ausilio di tre Consigli, che lo aiutano, lo controllano, ne nominano il successore. Struttura identica, nei suoi principi, fondamentali al Führerprinzip nazista.

Quella Costituzione fu osteggiata da buona parte del clero sciita (questo è stato ed è tuttora incredibilmente ignorato in Occidente) a partire dall’ayatollah più influente dopo Khomeini, Kazem Shariat Madari, che inutilmente chiamò il popolo alla rivolta. Fu soprattutto ostacolata e criticata come scisma a Najaf, in Iraq, da un ayatollah che oggi ricopre un ruolo fondamentale nella democrazia irachena: Ali al Sistani. Ma fu purtroppo accettata da Banisadr e Bazargan e da tutti gli altri dirigenti della prima fase rivoluzionaria, che pagheranno quel loro opportunismo con l’esilio (e spesso con la morte). Per un interessante paradosso della storia, proprio coloro che furono complici della «purga» che eliminò dal potere nel 1981 la prima dirigenza rivoluzionaria, l’hojatoleslam Ali Rafsanjani e il premier Hussein Mussavi, sono oggi i leader dell’«Onda Verde» che vuole riformare quella Costituzione teocratica che allora difesero, pieni complici di una repressione sanguinaria (non meno di 4000 tra mullah e anche ayatollah furono imprigionati in quegli anni e molti di loro furono uccisi).

Tratto da Carlo Panella, Ayatollah Atomici. Tutto quello che non ho capito della rivoluzione iraniana, Mursia 2010.

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