Tutto si può dire della transizione nello Yemen tranne che è pacifica
07 Giugno 2011
I leader europei riuniti a Roma hanno annunciato il loro sostegno alle proposte del Consiglio di Cooperazione del Golfo sul processo di transizione in Yemen, dopo la partenza del presidente Saleh in Arabia Saudita e la tregua raggiunta grazie al re saudita Abdullah: "Facciamo appello agli yemeniti perchè trovino la strada della riconciliazione in uno spirito di dialogo e unità nazionale," dice il comunicato congiunto, "in particolare sulla base delle proposte avanzate nel quadro dell’iniziativa del Consiglio di Cooperazione del Golfo, alla quale diamo pieno sostegno, così che il popolo yemenita possa scegliere democraticamente il proprio leader". Stesso tenore quello del messaggio che arriva da Washington. Ripercorriamo in questo articolo gli accadimenti degli ultimi giorni.
Quanto accaduto nello Yemen è un chiaro segnale del fatto che il Paese più povero della penisola araba è sull’orlo della guerra civile, probabilmente più che sull’orlo. I violenti scontri tra i manifestanti e le forze governative hanno procurato fino ad ora circa 400 morti di cui 150 solo negli ultimi dieci giorni, e ciò ha reso la situazione, tesa da diversi mesi, davvero insostenibile. Lo Yemen ha iniziato la sua discesa nel baratro già dallo scorso febbraio, e lo scenario è diventato ormai molto delicato considerando che la principale tribù presente sul territorio, quella degli Hashed, si è schierata apertamente contro il governo. La situazione nello Yemen è complessa: se in superficie è visibile un governo con tanto di rappresentanti, parlamentari e ministri, la vera anima del Paese è nelle numerose tribù che detengono un grande potere. Il governo non può ignorare ciò che si agita nel ventre più profondo di questa terra.
In passato, gli Hashed hanno dato filo da torcere a tutti i poteri che si sono succeduti durante l’ultimo secolo nello Yemen, e non sembra che adesso vogliano comportarsi diversamente. Lo scorso 23 Aprile il presidente Saleh, il cui mandato scadrà nel 2013, aveva promesso di firmare un documento preparato dai Paesi del Concilio di cooperazione del Golfo, in cui accettava di ritirarsi dalla vita politica e di cedere il comando del Paese al suo vice, in cambio dell’immunità. Di fatto però, almeno per adesso, Saleh non ha ancora concesso il suo "autografo". Il governo, che in seguito ai primi scontri aveva affermato la pericolosa presenza di membri di al Qaeda tra i manifestanti, ha intensificato il duro atteggiamento repressivo ancor più alla luce dell’ attentato subito lo scorso 3 giugno dal presidente.
Il palazzo presidenziale infatti è stato colpito proprio mentre Saleh, insieme ad altre personalità politiche, si trovava all’interno della moschea ad esso adiacente per la consueta preghiera del venerdì. Poco dopo l’attentato il presidente ha rilasciato un messaggio alla tv di Stato per rassicurare i cittadini sul suo stato di salute. Nel messaggio ha attribuito l’attacco ad una "banda di fuorilegge" della confederazione tribale degli Hashed guidata dallo sceicco Sadeq al Ahmar. Saleh ha riportato solo lievi ferite alla testa, mentre diverse persone sono rimaste uccise. Nonostante le sue condizioni non siano gravi, il presidente si è recato ieri in Arabia Saudita per farsi curare, lasciando momentaneamente le redini del Paese al suo vice, la cui carica però, dovrebbe durare giusto il tempo necessario affinché Saleh possa rimettersi completamente. Ma c’è qualcuno che vede una pressione occidentale sulla momentanea fuoriuscita del leader yemenita.
Considerando questo attacco come un vero e proprio tentativo di ucciderlo, il presidente non mancherà di giustificare le sue prossime mosse alla luce di questi fatti. Una intensificazione della violenza tuttavia non potrà che peggiorare le cose. C’è addirittura chi sostiene che Saleh abbia organizzato la messa in scena dell’attentato per giustificare l’intensificazione delle azioni repressive contro i suoi oppositori. La minaccia della guerra civile è così incombente che l’europea Catherine Ashton, dopo aver nuovamente invitato Saleh a lasciare il potere, ha annunciato l’attivazione di un meccanismo per aiutare e coordinare l’evacuazione dei cittadini europei residenti in Yemen, intenzionati a lasciare il Paese a causa delle violenze. Anche l’Arabia Saudita teme l’aumento delle agitazioni in casa del suo vicino più prossimo.
Ali Abdullah Saleh è al potere dal 1978, sono quindi più di trenta anni che guida lo Yemen, e non si può certo dire che la situazione del Paese sia migliorata in alcun modo. Il pugno duro e l’inflessibilità del leader hanno anzi portato il Paese a livelli di sottosviluppo impensabili, soprattutto se paragonati alla florida economia dei vicini esportatori di petrolio. Anche la lotta contro Al Quaeda, con cui Saleh si è accreditato dinanzi agli occhi degli occidentali, in queste ore vacilla. Ieri un commando dell’insorgenza jihadista ha ucciso 7 soldati yemeniti e ne ha feriti altri 12 nella provincia di Abyan. Si calcola che nei mesi scorsi decine di miliziani di Al Qaeda siano entrati nel paese, scontrandosi con le forze di sicurezza, e in certi casi occupando gli edifici pubblici e appiccando il fuoco. Se il Paese dovesse "fallire", come sembra stia effettivamente accadendo, lo Yemen sprofonderebbe in un abisso da cui sarebbe molto difficile venire fuori.