Umanità e speranza nel pensiero di Tolkien
06 Gennaio 2020
di Aldo Vitale
Omero, Virgilio, Dante, Torquato Tasso sono tra i più grandi maestri dell’epica universale, i quali hanno donato all’umanità tesori inestimabili dal punto di vista del genio letterario e all’un tempo proponendo una profonda esposizione della natura dell’uomo e dei suoi drammi come la scelta tra il bene e il male, tra la pietà e la crudeltà, tra l’amore e l’odio, tra la fedeltà alla patria e il suo tradimento, in sostanza, cioè, tra l’autentico accesso alla dimensione umana e la sua negazione più radicale.
Tra i predetti, che tuttavia non esauriscono ovviamente la lista dei “grandi”, merita senza dubbio di essere annoverato anche J.R.R. Tolkien per almeno tre ragioni fondamentali.
In primo luogo, in quanto nell’opera di Tolkien, senza dubbio immensa e sempre da approfondire di nuovo con le sue lingue, le sue allegorie, le sue fantasticherie, l’umanità costituisce il perno centrale della sua dimensione etica pur senza indulgere verso un antropocentrismo dimentico della dimensione trascendente fondativa del senso della vita.
Tolkien descrive, infatti, una umanità decaduta, corrotta dalla sete di potere, che pur tuttavia può e deve redimersi interrompendo il suo servizio prestato al male, cioè quel Sauron che, ribellatosi all’ordine cosmico voluto da Iluvatar, il Dio creatore, ha portato solo morte e distruzione.
In secondo luogo, da ciò emerge la prospettiva della speranza così tipica del racconto tolkeniano che mai si arrende, come i suoi stessi protagonisti del resto, alla mera accettazione e registrazione dell’essere della realtà rifiutando il dover essere della medesima.
Anche nel momento più buio della terza era, quando Sauron ha accresciuto il proprio dominio su tutta la terra di mezzo, quando gli uomini sono stati quasi completamente distrutti dalla corruzione e dal peccato, quando vige la disunione tra le diverse razze di uomini, nani ed elfi, allora più fulgida risplende la luce della speranza anche dal recesso più oscuro della tenebra dell’annichilimento totale.
Ecco come intendere le parole che, per esempio tra i tanti, Sam rivolge a Frodo:«Lo so. E’ tutto sbagliato. Noi non dovremmo nemmeno essere qui. Ma ci siamo. E’ come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale. Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte?[…]. Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso[…]. C’è del buono in questo mondo, padron Frodo. È giusto combattere per questo».
In terzo luogo, infine, affiora l’idea che per quanto il male sia potente, distruttivo e tenace il bene non può che trionfare, purché gli uomini, la Chiesa insomma, non si arrendano e continuino a lottare per la libertà e soprattutto per la verità, come si evince dalle parole che lo stesso Tolkien rivolge nella lettera al figlio Michael, nell’ottobre del 1968, allorquando chiarisce che «una Chiesa militante non può pensare di chiudersi dentro una fortezza con tutti i suoi soldati».
Tanto validi gli insegnamenti di Tolkien nell’epoca in cui furono scritti, cioè tra il secondo conflitto mondiale e l’inizio della guerra fredda, quanto ancora oggi in cui il mondo culturale cattolico – di cui Tolkien era fiero esponente – sembra recedere da quasi ogni spazio pubblico, battendo in ritirata dalla politica rinchiuso tra il forte nemico oscuro del nichilismo di fronte e una debole fede alle spalle.