Un buon vino non sarà più frutto del marketing, ma delle vigne biologiche
03 Luglio 2011
Non è difficile distinguere, in ambito enogastronomico, i Paesi che dispongono nella propria tradizione sociale, culturale ed antropologica della conoscenza storica del vino. Sia perchè la sperimentazione sull’uva è più alta laddove quest’ultima è maggiormente radicata nel filone logico di una evoluzione consequenziale, sia perchè sono i vini provenienti proprio dalle zone di interesse tradizionale ad essere poi esportati verso destinazioni che, prima del boom prodotto dalle bottiglie nell’immaginario collettivo, si erano adeguatamente tenute a distanza dall’intraprendere un’attività economica seria su questo tipo di mercato così diverso e particolare.
Non è affatto sorprendente in effetti, se l’asprissima critica riservata ai vini ottenuti tramite un trattamento biologico, frutto spesse volte di ignoranza in materia, provenga proprio dalle nuove "colonie" nelle quali il vino ha cominciato a comparire in tempi più che recenti, come gli Stati Uniti ed il Brasile, tanto per citarne due. Sì, perché è curioso notare proprio come oggi giorno i vini italiani e soprattutto quelli francesi siano ritenuti complessivamente difficili, sia per gusto che per potenzialità di vendita. Gran parte della colpa di queste folli valutazioni, che si ripropongono ormai quotidianamente, sono da ricercarsi sostanzialmente nella percezione elitaria che il vino suscita sulle persone. Essendo quest’ultimo ritenuto un argomento difficilmente potabile per i non addetti ai lavori, ci si è troppe volte fidati ciecamente di pareri critici non del tutto disinteressati. E non è di certo un caso che ogni qual volta subentrino interessi diretti e commerciali, il valore della critica aumenti in maniera esponenziale in quanto a riconoscimento comune ma venga corrotto alla base, privandosi del ben più importante significato etico.
E’ sufficiente citare il "Wine Spectator", la più influente pubblicazione mondiale di vino, per sostenere la tesi che abbiamo abbozzato: alcuni critici tra i più importanti, come Robert Parker (si deve a lui la celebre guida omonima che pensa di poter recensire vini con un voto su scala di 100 punti, dimenticandosi come ogni vino sia un’esperienza unica, non esistendo 2 bottiglie veramente uguali) e Matt Kramer, hanno sempre cercato di indirizzare il mercato ed il gusto delle masse verso sapori artificiali, snaturando il vino dal contesto umano di cui è il frutto più nobile.
Una delle pratiche più diffuse negli ultimi due decenni in ambito enologico, è quella di zuccherare in maniera terribile il vino appena ottenuto, facendo si che mediante l’aggiunta di prodotti chimici come i solfiti, ed altri naturali ma comunque invadenti come più lievito di quello che naturalmente occorrerebbe, si ottenga l’imbottigliamento di prodotti che in gergo definiremmo facili. Facili per due semplici motivi, che stanno però alla base di tutto.
Per cominciare, un vino estremamente zuccherato sarà probabilmente molto alcolico (è comunissimo procurarsi bottiglie con una graduazione attorno ai 13° o 14°), e quindi in grado di soddisfare quel sapore estremamente fruttato che tanto piace agli ambienti elitari, snobistici e parrucconi in cui il vino produce guadagni, e anche tanti. Il secondo punto altro non è che la conseguenza logica del primo: un tipo di vino molto alcolico, dal sapore facilmente intuibile, mai misterioso e sempre di facile fruizione (potremmo addirittura parlare di potere del gusto – ndr) rappresenta al 90% una garanzia di vendita. Potere del gusto, appunto.
Un processo di omologazione pensato su larga scala e sostenuto dai grandi guru e nomi del vino mondiale, così da impedire il riconoscimento intimo di un gusto proprio e autentico, mirando ad ottenere – sempre per un fatto di strategie di marketing – una soddisfazione guidata, accompagnata, somministrata dall’alto in maniera omeopatica. I primi segnali di una nuova ricerca spirituale sul nettare di Bacco, arrivano (e non poteva essere altrimenti), dai Paesi nei quali il vino è ancora strettamente e meravigliosamente collegato a quell’idea di tradizione che comprende immagini quali l’azienda di famiglia che si tramanda per generazioni, stesse uve e stessi vigneti coltivati con sapienza e rispetto del luogo: Italia e Francia. La risposta moderna alla produzione di bottiglie eterogenee, conformiste e per nulla sorprendenti nasce dal trattamento biologico della vigna che numerose realtà interne al settore vinicolo stanno introducendo da tempo.
Al momento non esiste a livello istituzionale una normativa ufficiale europea che regoli questo tipo di procedura perchè i produttori del nord-Europa, operando in zone in cui l’esposizione solare è molto limitata, necessitano di solfiti per stabilizzare la qualità dei propri prodotti finali. Tuttavia sarebbe ingenuo accamparsi di fronte a questo ostacolo geopolitico, che deve invece diventare un importante spunto di riflessione portando le istituzioni a trovare un accordo comune che regoli l’uso di solfiti e prodotti chimici durante la produzione del vino.
Occorre specificare che il processo di vinificazione dell’uva comporta comunque la produzione di solfiti, che sono però del tutto naturali essendo legati ad un normale processo biologico e non chimico. Quella di produrre vino biologico è una scelta molto coraggiosa e soprattutto non spendibile immediatamente, bensì destinata a pagare i suoi dividendi in un periodo di medio-lungo termine. Ciònonostante, gli ingredienti per fare bene ci sono tutti.
Innanzitutto, così facendo si restituisce il vino alla natura, lasciando che sia l’uva, entro certi limiti, a fare il proprio corso (“Mi rompe un po’ ripeterlo in continuazione, ma è così: se si lascia che il succo d’uva faccia come gli pare, diventa aceto” – Jean Marc Roulot, uno dei principali nomi del vino borgogneus). In secondo luogo, il vino riacquista la propria identità unica e personalissima. Perchè il vino ha un rapporto unico con la memoria e non può prescindere dall’identità collettiva, dalla storia e dalla espressione antropologica di un luogo. Ossia quello che solitamente si definisce ‘terroir’, un termine adottato da tutte le lingue del mondo del vino, che non ha una traduzione immediata. Citando l’enologo Jonathan Nossiter, potremmo definire il terroir “l’interazione tra un suolo e un microclima specifici, unita all’effetto delle pratiche umane ad essi tradizionalmente legate”. Una sorta di genius loci, ma applicato al mondo del vino.
Una rivoluzione, quella biologica, che mira a ristabilire un rapporto originario e quasi selvaggio tra la vigna, il territorio e la tradizione. Il tutto per permettere al vino di rappresentare – pregi e difetti – soltanto quello che è: l’espressione più nobile di un territorio unico e a suo modo irripetibile.