Un colpo di pistola in direzione Punta Perotti

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Un colpo di pistola in direzione Punta Perotti

01 Luglio 2011

«Primo febbraio duemilauno, ore sette» ripetuto all’infinito.

Perché non l’avevo disattivata quella dannata sveglia?

Mi ero svegliato con un’incredibile voglia di the freddo al limone.

Non feci colazione e mi andai subito a fare la doccia.

Proprio mentre mi godevo la bella sensazione di lasciarsi scivolare addosso l’acqua tiepida e consentire che lavi dolcemente, qualcuno bussò.

Chi poteva essere a quell’ora se non il capolavoro dell’invasione domestica, il terrore delle massaie, l’arma con cui gli Alleati hanno vinto la guerra, la fastidiosa, nauseabonda: Titina Losecco.

Il suo odore era similare a quello di un pezzo di carne cruda lasciata chiusa per due mesi in un freezer disattivo e la sua caratteristica principale era insinuarsi nelle case della povera gente e ammorbarle coi problemi psicologici della figlia (che conviveva con lei), di quelli fisici della madre (che anche conviveva con lei) e quelli con la sua parrucchiera (che però non conviveva con lei). Io ero in accappatoio:

–   Buongiorno, signora Titina.

Per doveri di buon vicinato non la potevo mandare a cagare subito. Lo avrei fatto dopo.

–   Ciao, Laerte. Ci sono…

–   NO!

Attimo di silenzio imbarazzato da parte sua prima di ripartire all’attacco:

–   Sei solo?

–   SÌ!

Altro attimo di silenzio analogo al precedente.

–   Sai perché volevo parlare con…

–   NO! – “E non me ne frega nulla” pensai.

–   Era per via dei problemi che la parrucchiera mi ha dato ieri.

Era fissata con la parrucchiera. Iniziavo ad avere freddo, e stavo anche per svenire per la puzza, per cui le dissi:

–   Signora, i miei coinquilini non ci sono e io sono bagnato. Se ha qualcosa di urgente da dirmi è bene, altrimenti la prego di lasciarmi andare ad asciugare.

–   Ritornerò più tardi.

Questa parola era suonata più come una minaccia che come una promessa.

Sperai che salendo al terzo piano, dove abitava, scivolasse su una buccia di kiwi (anche se era febbraio) e rimanesse tramortita per sei o sette anni. Non vi era cattiveria in questo desiderio, ma solo un bisogno fisiologico di privacy.

Ritornai sotto la doccia e lentamente ricostruii il clima di pace che c’era prima della venuta della nefanda. Ancora una volta provavo la sensazione sublime dell’acqua che… il campanello suonò.

Mentre mi asciugavo i capelli aprii la porta e, senza nemmeno vedere se era lei, dissi:

–   Signora, non me ne frega della sua parrucchiera. Vada da sua figlia e le spari pure, se è questo che vuole, ma smetta di rompermi i…

–   È venuta di nuovo la Losecco?

Era lo Specializzando. Aveva capito subito a chi pensavo di parlare. Lo aveva capito dall’intromissione della parrucchiera, certamente.

Era appena ritornato dalla guardia notturna. Gli chiesi se era andato tutto bene, lui rispose di sì, ma sapevo che mi nascondeva qualche pensiero sgradevole.

Lo esortai a parlare e lui mi disse che un suo collega chirurgo plastico non si era presentato quella notte.

Aveva avuto bisogno di parlargli riguardo un interventino estetico che si sarebbe dovuto fare alla cicatrice del cesareo di una modella delle nostre parti, ma lui, anche se era di guardia quella notte, non si era ritrovato.

Io pensai che in fin dei conti fosse una cosuccia da nulla e non riuscivo a spiegarmi come mai fosse così giù. Mi disse anche che, secondo lui, il collega era sparito perché era sopraffatto dai debiti che aveva contratto con gli strozzini: era un pokerista.

Non si aveva notizia di lui dal trenta gennaio, giorno in cui la moglie lo aveva salutato prima di partire alla volta di Trepuzzi per far visita alla sorella.

L’uno febbraio aveva preso un giorno di ferie e quindi ci si era accorti della sua sparizione solo quando era stato assente ingiustificato in clinica. Sua moglie sarebbe stata informata dalla portinaia.

Lo Specializzando aveva ipotizzato che fosse scappato dai creditori che gli avevano già mangiato i mobili di casa e l’argenteria.

Rimanemmo così, senza parole, per un po’. Poi lui se ne andò a dormire.

Per quel due febbraio avevo dei progetti ben più importanti che vendermi gli organi per pagare i debiti di gioco: avevo intenzione di parlare con qualcuno che avesse conosciuto bene l’assessore, col direttore artistico che aveva visto Calcagni passare una busta a Massimiliano e sorvegliare la signora Calcagni per vedere che tipo di vita faceva.

Una persona che sapevo vicina all’assessore era Mario Delusse, suo segretario personale.

Non ero però riuscito a trovare il suo indirizzo: non era segnato sull’elenco e sia mia madre che Giosuè non ne erano a conoscenza. La mia unica speranza era Rita.

Quel giorno l’aveva preso di malattia per via di una infreddatura beccata sul lungomare la notte avanti.

Non avrei voluto disturbarla: sicuramente stava a letto, probabilmente a dormire e per di più avevo sentito rumori provenire da casa sua fino a quando non mi sono addormentato, quindi, con ogni probabilità, era rimasta sveglia fino a notte fonda. Nonostante ciò, la sua reazione fu piuttosto contenuta:

–    Che stracazzo vuoi a quest’ora?

–   Potresti procurarmi un indirizzo?

–   Non posso uscire oggi. Ti sei dimenticato che sono in malattia?

–   Possibile che non hai qualche amico che dall’ufficio possa darti informazioni?

–   Avanti, che ti serve?

–   Trovami l’indirizzo di Mario Delusse. Era il segretario personale dell’assessore. Devo riuscire a parlarci. Appena sai dove abita chiamami.

–   E ora che farai?

–   Vado al teatro dove lavorava Massimiliano. Devo parlare con Matteo Benevento.

–   Un altro illustre sconosciuto.

–   Era il direttore artistico di Massimiliano.

La salutai e me ne andai direttamente per non perdere tempo prezioso.

Riconobbi subito Matteo Benevento per via dell’abbigliamento eccentrico con cui me lo aveva sempre descritto Massimiliano.

Io lo avevo conosciuto solo in poche occasioni, ma l’impressione che mi aveva dato era stata più che buona. Avevamo un rapporto cordiale.

–   Buongiorno signor Benevento.

–   Buongiorno. Ho sentito di Massimiliano. Ha saputo?

Stavo per dirgli che lo avevo scoperto io il corpo, ma soprassedetti:

–   Sì, ho saputo. Che dispiacere. Lei lo conosceva certamente meglio di tutti.

–   Lo può dire forte: io ero più di un amico per lui. Gli volevo molto bene.

–   Certo, come un fratello.

–   Qualcosa di più.

–   Come un padre?

–   Di più.

–   Come una madre?

–   Ma che dice?

–   Mi perdoni, ma non ho capito

–   Ma allora Massimiliano non ti ha detto nulla?

Lo guardai per un attimo. Vedendomi in difficoltà, disse:

–   Io e Massimiliano eravamo amanti da tempo.

–   Dunque lui era gay?

–   Non se n’era mai accorto?

–   Veramente, no. Comunque, signor Benevento, lei ha visto il defunto assessore Calcagni mentre passava una busta a Max. Vero?

–   E tu da chi lo hai saputo?

–   Sto lavorando alla morte di Massimiliano per trarne un… un… romanzo poliziesco.

–   Me lo aveva detto Max che sei uno scrittore di polizieschi.

–   Mi saprebbe descrivere l’espressione che aveva l’assessore?

–   Preoccupata.

–   Che tipo era l’assessore?

–   Non lo frequentavo molto: mi stava antipatico.

–   Come mai?

–   Aveva sempre cercato di portarmi via Max.

–   Anche Calcagni era omosessuale?

–   Altroché! Lo si vedeva lontano un miglio. Non lo sapeva?

–   Io? Eccome se lo sapevo. Tutti lo sanno. Ma non aveva una moglie?

–   Aveva figli?

Ora che ci pensavo, l’assessore non aveva figli. Aveva rifiutato la segretaria che lo voleva sedurre. Ecco come mai andava così spesso a teatro: non per imboscarsi con una ragazza, ma per incontrare Max.

Ma vi era ancora il dilemma del nome della moglie gridato prima di suicidarsi.

Perché lo aveva gridato se il loro rapporto era puramente di facciata? Risposte a cui, col tempo, avrei dato una risposta. Salutai Matteo Benevento e andai a sorvegliare la signora Calcagni.

Purtroppo non aveva fatto nulla di interessante per tutto il giorno e non mi restava altro che tornare a casa, dove mi sarei rivisto con Rita, che non mi aveva ancora comunicato l’indirizzo di Mario Delusse. Per strada assistetti a una scena molto interessante: stavo costeggiando Piazza del Ferrarese quando una macchina carica di quattro uomini, sparò ad un passante e ripartì in direzione di Punta Perotti.

Il passante era uno della famiglia mafiosa dei Berillo. Di lui i giornali si erano sempre occupati, ma nelle ultime ore, dalla morte di Mendo, aveva occupato spesso le aperture delle varie edizioni dei tg. Alcuni ipotizzavano fosse lui il responsabile della morte di Tano Mendo.

La cosa non mi aveva stupito più di tanto: a Bari è normale che di tanto in tanto vi sia qualche attentato, altrimenti non sarebbe divertente vivere in questa città.

Eppure, una cosa anomala che ricordo di quell’agguato, era l’assenza di qualche faccia nota nel gruppo degli assalitori.

Dovevano essere tutti giovani emergenti.

Anche di questo mi sarebbe piaciuto avere un ragguaglio da Riccardo.

(Fine capitolo 8)