Un convegno sulla cultura italiana negli Usa. Ma di quale cultura si tratta?

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Un convegno sulla cultura italiana negli Usa. Ma di quale cultura si tratta?

Un convegno sulla cultura italiana negli Usa. Ma di quale cultura si tratta?

13 Aprile 2007

È in corso presso la Georgetown University e presso l’Ambasciata d’Italia a Washington, negli Stati Uniti, un convegno su “Professori italiani d’America”, organizzato dall’Istituto Italiano di Scienze Umane (13-14 aprile) . Il convegno ha messo insieme una buona percentuale dei 244 docenti di origine italiana che operano nelle università di Stati Uniti e Canada. Di questi, 143 sono italianisti. Gli altri si distribuiscono tra altre discipline, dalla storia alla filosofia, dall’economia all’antropologia. Vedremo che cosa uscirà dal convegno. Qui ne parliamo a lavori in corso. L’idea guida del direttore del SUM, il prof. Aldo Schiavone, studioso di diritto romano, è stata quella di dare vita a “una rete permanente di irradiamento culturale italiano nel Nord America”. L’idea non è dannosa, in quanto tutto ciò che contribuisce allo scambio di idee tra studiosi non può che essere salutato con favore. Ma è anche utile? Non si rischia, nella migliore delle ipotesi, di sovrapporsi a iniziative già esistenti, e, nella peggiore, a riproporre quel concetto di “italianità culturale” sposato dagli Istituti Italiani di Cultura che non ha più senso al giorno d’oggi, se mai ne ha avuta in passato?

Gli studiosi invitati a Washington sono per la maggior parte italianisti (143). Si tratta di gente che già si conosce tutta, che ha i propri circuiti scientifici di collaborazione, le proprie riviste, i propri canali accademici. Il loro problema, se mai ne hanno uno, non è quello di “irradiare l’italianità” in Nord America, ma piuttosto quello di far conoscere la loro produzione scientifica, spesso di altissimo livello, ai colleghi che operano in Italia, visto che questi ultimi (che di solito non sanno né l’inglese né il francese), li trattano con sufficienza come se si trattasse di rappresentanti di un terzo mondo culturale non all’altezza della nostra accademia.

Da questo punto di vista, mi sento di invitare il prof. Schiavone a organizzare una seconda tornata del convegno in Italia, per “irradiare l’italianità” in Italia (e conoscere finalmente quanto fanno gli italianisti fuori d’Italia) e sprovincializzare la nostra accademia, e non viceversa. Ci siamo mai chiesti quanti studiosi di origine non italiana insegnino nelle università italiane nel campo delle scienze umane e sociali? Sono pronto a scommettere che questi si contano sulla punta della dita. Forse è anche questo un segno della miopia burocratica del nostro sistema universitario.

E che cosa dire degli studiosi di origine italiana che insegnano discipline non italianiste? Gli antropologi hanno già le loro associazioni accademiche internazionali, e così gli storici, o gli economisti. Sempre più i coordinamenti scientifici tra gli studiosi avvengono lungo linee disciplinari che non hanno niente a che vedere con la nazionalità degli studiosi. La globalizzazione della conoscenza umana è sempre stata un dato di fatto, e lo è tanto più adesso che i mezzi per conoscere e per conoscerci sono così accessibili a tutti. A che pro, dunque, un coordinamento nordamericano degli studiosi “italiani” o, come sarebbe meglio dire, di origine italiana?

Questa idea di “italianità culturale” promossa dal convegno della SUM ci lascia dunque francamente perplessi. Sono certo che il filosofo Remo Bodei, il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, o il filosofo Ermanno Bencivenga non si sentono “portatori di italianità” all’estero, ma piuttosto studiosi che operano a tutto campo nel mondo internazionale della conoscenza umana e che desiderano essere giudicati dalla comunità dei pari, e dai loro lettori, per quel che valgono, e non per il loro luogo di nascita o per il loro passaporto.

E in quanto all’idea di “studioso italiano all’estero”, altro cavallo di battaglia di matrice nazionalistico-ministeriale, si tratta di un concetto riduttivo che equipara gli studiosi, di origine italiana appunto, ai profughi carbonari dell’Ottocento, ai rifugiati politici, o semplicemente a quei milioni di poveretti costretti a guadagnarsi il pane tramite l’emigrazione. Un concetto, appunto, che non appartiene alla maggior parte di coloro che si incontrano nelle università e degli istituti di ricerca fuori d’Italia.

Certo, è gente che sa l’italiano, che continua a seguire le vicende italiane, che torna spesso “a casa”, che fa parte di reti internazionali di cui a volte l’Italia fa parte, e che non manca di una certa nostalgia per i luoghi della famiglia e delle amicizie. Ma non è gente che non aspetta altro che una nuova legge per il “rientro dei cervelli” per tornare a casa. Si tratta, invece, quasi sempre di personalità multilaterali, dalla doppia identità, i quali vivono altrettanto bene dall’una parte o dall’altra dell’Oceano Atlantico, e sono di casa dovunque si trovino (e si troveranno). Non “studiosi italiani all’estero”, dunque, ma cittadini di un mondo occidentale sempre più unificato, in cui la scienza e la conoscenza non hanno più nazionalità, e in cui i primati si valutano a livello internazionale, e non secondo vecchi provincialismi nazionalisti.

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