“Un giorno bussò alla porta Tano Mendo in persona”
01 Luglio 2011
– Mi devi fare un favore, Ricky.
– Dimmi tutto.
– Devi far pedinare quest’uomo.
Gli diedi un’istantanea di Dazi che avevo fatto, non senza problemi, prima di andare nel suo covo.
– Non c’è problema, gli metterò mio fratello alle calcagna. Lo chiamano “Predator”.
– Questa sì che è una garanzia.
Lo ringraziai e gli dissi che sarei ritornato verso le cinque per chiedere che cosa fosse saltato fuori.
Erano le dieci e dovevo ancora chiedere a Rita di darmi notizie su Salvatore Dazi. In commissariato c’era sempre la solita farragine.
Lì mi conoscevano un po’ tutti, almeno di vista, e non facevano mai obiezioni quando chiedevo di Rita.
Quando entrai, la vidi incollata al telefono a parlare col questore:
– Certo, signor Questore.
Pausa.
– Naturalmente, signor Questore.
Pausa.
– Conti su me, signor Questore.
Pausa.
– Agli ordini, signor Questore.
Depose la cornetta.
– Vecchio stronzo piscialletto.
– Ma che linguaggio scurrile e campagnolo.
– E non mi rompere i coglioni anche tu!- tuonò con maggior finezza.
Decisamente era il momento meno adatto per chiederle delle informazioni, ma dovevo provare per forza:
– Senti, potresti procurarmi delle informazioni su una persona?
Stava per esplodere. Sapevo che stava per esplodere. Forse era meglio mettersi al riparo prima che mi sparasse una revolverata.
Si portò la mano al fianco destro (quello della pistola) e fu allora che mi gettai a terra implorandola di risparmiarmi. Lei mi guardò stranita. Aveva soltanto preso una caramella dalla tasca. Le chiesi ciò che mi serviva.
Mi avrebbe fatto sapere i risultati di lì a qualche ora: avrei ricevuto un fax.
A quel punto potevo anche concentrarmi sulle fotografie del suicidio e dell’omicidio.
Disposi ordinatamente le fotografie sul tavolo e mi misi a osservarle una per una. Poi le confrontai in vari modi e infine le appesi sulla parete di fronte al letto.
Pian piano chiusi le palpebre e mi lasciai andare alla pennichella, la notte prima avevo dormito malissimo e ora ero stanco.
Sognai Massimiliano.
Penzolava dal cappio e la sua lingua continuava a galleggiare nel bicchiere.
Mi disse:
– Laerte, ho freddo. Chiudi la finestra.
– È chiusa — rispondevo tranquillamente senza togliere gli occhi da lui.
– Chiudi la finestra. Ho freddo — mi ripeteva.
– L’ ho chiusa. Non può essere aperta.
– Ho freddo.
La voce mi giungeva echeggiante come in un lungo corridoio. Lui continuava a dondolare al vento e mi fissava. A un certo punto, qualcuno suonava alla porta. Io andavo ad aprire, ma non arrivavo mai alla porta perché stavo attraversando una specie di foresta dalla quale non riuscivo a uscire. Il campanello continuava a suonare e da dietro mi giungeva la voce mi Massimiliano che mi diceva di chiudere la finestra. A questo punto, si apriva un gorgo nero e profondo che man mano inghiottiva la foresta e rischiava di portarmi giù.
Un grande vortice nero del quale non vedevo la radice e che mi sembrava la bocca dell’Inferno. Ma nonostante corressi, venivo inghiottito lo stesso da quel maelstrom di tenebra.
Mi svegliai con un sussulto e tutto sudato. Il telefono stava squillando e doveva essere stato quello a darmi l’illusione del campanello che suonava nel sogno.
Al telefono era Rita. Ma quanto avevo dormito?
Mi disse che mi aveva inviato il fax mezz’ora prima, ma che non aveva avuto nessuna risposta. Le spiegai che mi ero addormentato e la ringraziai. Salvatore Dazi era un negoziante di scarpe sparito cinque anni prima. Sua moglie era ancora vivente e abitava in via Salvemini.
La polizia aveva smesso di cercarlo perché pareva che avesse intenzione di separarsi dalla moglie e di andarsene a Roma a cercare lavoro.
Probabilmente aveva anche qualche aggancio nella malavita per via della fedina penale sporca: rapina, furto ed estorsione.
In tutti e tre i casi gli era andata male perché era un dilettante e non aveva la giusta organizzazione.
La moglie mi avrebbe forse saputo dire di più, composi il numero di telefono che recava il fax e aspettai che rispondesse. Pareva che l’apparecchio squillasse a vuoto, stavo per riattaccare quando una voce oltretombale mi rispose:
– Pronto?
– Pronto, buongiorno. Parlo con la signora Dazi?
– Non sono più la signora Dazi da cinque anni a questa parte. Addio.
– Aspetti. Io chiamo per…
Stronza! Aveva già chiuso. Riprovai a chiamare, ma quando sentiva la mia voce attaccava immediatamente. Dopo il sesto tentativo staccò la spina.
Dovevo andarci di persona. Avevo in mente anche come entrare in casa sua. Presi dallo sgabuzzino un pacco di scarpe vuoto, lo incartai e infiocchettai e lo misi in una busta per evitare che si rovinasse.
Col motorino raggiunsi immediatamente via Salvemini. Il palazzo dove abitava la signora Erminia Dazi era vicino a un gommista e di fronte a un grande campo incolto e libero. Bussai al citofono:
– Chi è?
– Consegne. C’è un pacco per Erminia Dazi.
– Chi lo manda?
– Tale Salvatore Dazi.
Rimase un attimo in silenzio, ma non accennava a parlare.
– Lo devo riportare indietro o mi apre? Devo fare altre consegne.
– Salga, salga.
Che cosa strana: non si sentiva col marito da cinque anni eppure quando arrivava un pacco a suo nome apriva subito.
Mi aprì la porta e prima che potesse realizzare che il pacco era vuoto e che non c’era alcuna bolla d’accompagnamento, riuscii a infilare il piede tra la porta e il battente.
– Signora, non sono un malintenzionato e non le voglio fare del male. Sono quello che ha chiamato e a cui non ha risposto.
Almeno pareva essersi convinta che non la volevo sgozzare, ma voleva comunque chiudere assolutamente la porta.
– Signora, non ho intenzione di lasciarla andare finché non mi dirà quello che voglio sapere.
Il mio tono era diventato all’improvviso duro e determinato e quello di lei si era inacidito e acuminato:
– Se non mi fai chiudere chiamo la polizia.
– La inseguirò in casa e strapperò il filo del telefono. La legherò a una sedia e la farò parlare.
Ero più alto di lei e quello scontro verbale (almeno per il momento) stava catturando man mano entrambi come un poliziesco a puntante. Non aveva reagito come se fosse stata colta di sorpresa, ma come se si aspettasse questo tipo di visita. La telefonata che le avevo fatto doveva averla messa sul chi vive.
– Chiamo gente.
– La chiami, così mi potrà spiegare davanti a tutti, polizia compresa, come mai non ha ancora detto dov’è suo marito.
Parve istupidirsi. Restò per un attimo con gli occhi fissi e poi, con voce modulata, disse:
– Entra.
Ora che la guardavo meglio, mi accorgevo che nonostante avesse quarant’anni era ancora piacente e forse qualche rughetta che le era spuntata vicina alla bocca o al contorno occhi, l’aveva resa ancor più affascinante. Gli occhi erano azzurro brillante e i capelli rosso rame. La linea sottile di chi fa attività aerobica era avvolta morbidamente in un maglione a collo alto e in un pantalone aderente.
La casa non era affatto male, arredata sobriamente, con pochi mobili che c’erano non erano certamente paccottiglia.
Dovevano essere i classici mobili che passano di madre in figlia man mano che vengono a mancare i proprietari.
Mi fece accomodare in una poltrona di pelle marrone con la struttura in ciliegio.
– Perché cerca mio marito?
– Potrebbe c’entrare qualcosa con un omicidio, signora.
– E chi ha ammazzato? — chiese quasi senza stupore.
– Purtroppo non posso dirglielo. Lei sa dove si trova , vero?
Non mi rispose. Pareva volesse racimolare prima tutte le idee. Stava fissando il pavimento e sembrava non dare la menoma attenzione al sottoscritto. Io la lasciai stare e aspettai che si aprisse spontaneamente.
– Tutti devono sapere quello che è successo e smettere di pensare che Salvatore fosse un mafioso.
Annuii. Lei iniziò:
– Salvatore era immischiato con la mala. Amava molto giocare a poker e quasi senza accorgercene eravamo finiti sul lastrico. Eravamo quasi alla canna del gas quando…
Sono tutt’oggi convinto che fosse profondamente combattuta se parlare o meno, ma si doveva assolutamente sgravare del peso che portava. Disse finalmente:
– …un giorno bussò alla porta Tano Mendo in persona. Eravamo spaventati, ma quando lui ci spiegò lo scopo della sua visita, rimanemmo sollevati e disperati allo stesso tempo. Lui aveva bisogno di Salvatore per un lavoretto. Purtroppo non potevamo tirarci indietro. Si trattava di uccidere una persona…
– Chi era questa persona?
– Non lo so.
– Signora, le ricordo che queste reticenze sono molto nocive.
– Ti giuro che non lo so. Salvatore non me lo ha mai voluto dire.
– Le credo. Prosegua pure.
– Tano Mendo era rimasto tanto colpito dal lavoro di mio marito che lo portò con sé a Roma.
– Quindi non era improvvisamente sparito come si è sempre pensato?
– No. Mendo passava gran parte dell’anno a Roma e, quando veniva giù, lasciava a Roma mio marito come tuttofare. Ora che Mendo è morto, non ha più senso tenere le cose nascoste. Gli ha distrutto la vita a mio marito quel verme.
– Ma suo marito come mai non è tornato?
– Non ho ricevuto sue notizie da settimane. Un giorno mi hanno detto che era stato ucciso da un clan avversario. Mi hanno detto che lo hanno trovato morto carbonizzato in un’auto, era ridotto a un tizzone.
– Posso sapere chi glielo ha detto?
– Ho ricevuto una lettera criptata dai suoi colleghi — quest’ultima parola era stata detta con amara ironia.
Era una donna forte. Ma vi era ancora un punto che non mi convinceva:
– Mi sa dire come mai Gaetano Mendo si era fidato subito di suo marito e addirittura gli aveva affidato una posizione tanto alta?
– Non saprei. Forse perché sapeva che mio marito era troppo fesso per tradirlo.
– Quindi lei non lo vede da cinque anni?
– Beh, forse da cinque anni è esagerato.
– Quindi lo ha incontrato anche durante la sua latitanza?
– Sì, a tutte le feste comandate.
– Avrebbe per caso una fotografia di suo marito?
Iniziavo veramente a non capire più nulla. Quello che era sparito, era ricomparso e s’era messo con la moglie di Calcagni. Mentre lei era in un’altra stanza a prendere quello che le avevo chiesto, le domandai:
– Signora, è per caso mai capitato che suo marito fosse venuto a Bari e non fosse passato a salutarla o ad avvertirla che era in città?
– No, mai. Ci ha sempre tenuto a dirmi che c’era.
A questo punto i casi erano unicamente due: o Salvatore Dazi aveva preso una cotta di proporzioni boreali per Giuliana Calcagni e aveva dimenticato la moglie, oppure quello non era Salvatore Dazi.
La fotografia mi tolse definitivamente ogni dubbio: la forma delle orecchie, il taglio degli occhi e tutto il resto era diverso.
Avevo anche messo in conto che si fosse fatto una plastica per non essere riconosciuto dalla polizia, ma su due cose non si può mentire: le orecchie (che come ho già detto erano differenti) e l’altezza.
Chiesi alla signora quanto fosse alto e lei mi rispose che era poco più basso di me. Al contrario, quello che mi era stato spacciato per Dazi, era poco più alto.
Lì per lì non mi veniva in mente nessun’altra domanda da poter fare, e la poveretta mi pareva già abbastanza provata. Non potei fare altro che salutarla e, doverosamente, chiederle scusa per il mio comportamento di poco prima.
Anche lei si scusò, ma dopo che il marito era morto aveva paura che qualcuno avesse interesse a toglierla di mezzo.
(Fine capitolo 13)