Un nuovo patto fiscale per rilanciare la crescita e lo sviluppo

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Un nuovo patto fiscale per rilanciare la crescita e lo sviluppo

04 Giugno 2014

 Aderisco all’ottimismo, per quanto cauto, che emerge in via generale dalRapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica; un documento dall’indubbio valore strategico, nel quale sono contenute importanti analisi e valutazioni circa le misure sin qui intraprese nell’ambito della gestione della finanza pubblica e le prospettive riguardo al raggiungimento degli obiettivi per il triennio a venire.

Quello intrapreso dal governo nel Def dello scorso aprile è, come giustamente si rileva, un percorso di rientro impegnativo ma virtuoso, che se verrà portato avanti secondo la strada tracciata condurrà l’Italia a fine periodo a conseguire un saldo di bilancio in avanzo, un risultato storico che non si realizza nella nostra economia daiprimi anni del 1900. Ma condivido anche, evidentemente, la preoccupazione circa l’effettiva capacità di mantenere dritta la barra nella direzione individuata; una preoccupazione che deve essere un incentivo, sia chiaro, ad essere ancora più determinati nel perseguimento degli obiettivi tracciati.

Ci sono alcuni punti, nello specifico, su cui vorrei focalizzare la mia riflessione. Prima, però, vorrei fare una premessa che mi consentirà anche di introdurre il mio ragionamento.

Il pareggio del bilancio pubblico è entrato negli ultimi anni prepotentemente nel dibattito politico, non solo italiano. Il tema è evidentemente connesso alla grave crisi finanziaria che ha investito i Paesi occidentali a partire dal 2008. La costituzionalizzazione del pareggio del bilancio con il nuovo articolo 81 della Costituzione, in linea con i criteri della governance europea, non può essere ridotta a questione di natura meramente contabile-finanziaria. Ha radici storiche nel nostro Paese: Luigi Einaudi, nella formulazione originaria dell’articolo 81, immaginava già un meccanismo di questo tipo. Il tema coinvolge dunque la concezione stessa della democrazia, perché investe uno dei pilastri dell’intero edificio istituzionale.

​Esiste un grave paradosso che ha caratterizzato l’evoluzione dei sistemi di finanza pubblica negli ultimi decenni. Il passaggio dai principi della finanza neutrale (bilancio ordinariamente in pareggio) a quelli della finanza funzionale (utilizzo del saldo di bilancio in funzione anticiclica) ha finito per tradire del tutto le stesse premesse dalle quali partivano le teorie keynesiane. Keynes non ha mai teorizzato che il bilancio pubblico potesse essere permanentemente in deficit. Keynes ha piuttosto spostato l’orizzonte dell’equilibrio di bilancio dal singolo esercizio al ciclo economico.

​L’esperienza italiana, ma non solo italiana, degli ultimi decenni ha registrato quello che potremmo definire il “paradosso del keynesismo”. L’accettazione della prospettiva discrezionale nella politica di bilancio ha finito per annullare gli spazi per qualunque politica di bilancio. Ed in effetti, scorrendo la serie storica del deficit di bilancio negli ultimi decenni è arduo rintracciare un qualunque legame fra andamento del deficit e ciclo economico. Spesso il saldo di bilancio ha svolto non una funzione anti-ciclica ma, calpestando ogni insegnamento keynesiano, il suo esatto opposto, una funzione pro-ciclica. Basti del resto pensare al fatto che i decenni nei quali più profondi sono stati i disavanzi di bilancio e nei quali si è quindi accumulato un debito sempre più ingovernabile sono stati decenni di espansione dell’economica. E, al contrario, oggi l’Italia (e non solo l’Italia) è, paradossalmente, impegnata in rigorose politiche di riduzione del disavanzo (fino all’obiettivo storico del suo azzeramento) proprio in una fase economica recessiva!

​In questo senso, l’introduzione di un vincolo all’equilibrio di bilancio, semmai accompagnato da una clausola di flessibilità per i periodi di maggiore difficoltà, nonrappresenta necessariamente l’abbandono completo dell’approccio di Keynes, potrebbe piuttosto essere interpretato come l’unico modo per cercare di proteggere Keynes dalla (cattiva) politica keynesiana.

​L’unico modo per tutelare l’effettiva capacità decisionale, ovvero la corrispondenza fra il contenuto della decisione ed il reale volere del decisore, consiste proprio nella previsione di vincoli che limitino la discrezionalità della decisione e consentano al decisore di resistere a pressioni che possono condurlo ad una decisione non coerente con i suoi stessi interessi.

​Ciò premesso, e spiegato dunque il valore politico insito nel vincolo di pareggio di bilancio, resta nondimeno la problematica contingente relativa all’imposizione di tale vincolo – e di conseguenza l’adozione di impegnative politiche di rientro – in una fase recessiva come quella attuale. In questo senso, essere riusciti ad ottenere da Bruxelles una proroga per il raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale dei conti pubblici, comporta anche la necessità di portare avanti con incisività le riforme strutturali che costituiscono il presupposto stesso del rispetto da parte nostra degli impegni presi e degli obiettivi in termini di stabilità, occupazione e crescita.

​Prima di tutto, tra queste c’è la riforma del nostro assetto istituzionale, dal cui malfunzionamento sono derivate e derivano gran parte delle inefficienze che penalizzano il nostro Paese sotto il profilo della competitività e dello sviluppo.

​Del resto, potrà apparire strano ma la stessa riforma istituzionale è la prima riforma strategica da attuare anche per neutralizzare il rischio che l’obiettivo del pareggio di bilancio venga perseguito attraverso un aumento della pressione fiscale anziché tenendo sotto controllo le dinamiche della spesa pubblica. Questo tema è tanto più urgente nel nostro Paese dove le politiche di contenimento della spesa hanno incontrato in passato, quando i vincoli di bilancio erano assai meno rigorosi, ostacoli insormontabili. Il percorso di risanamento della finanza pubblica realizzato a partire dagli anni Novanta è stato compiuto sostanzialmente grazie ad un inasprimento della pressione fiscale. Nel rapporto della Corte dei Conti vi sono alcune pagine estremamente istruttive sull’andamento della pressione fiscale nel nostro Paese nell’ultimo decennio a confronto con quanto realizzato nello stesso periodo ad esempio dalla Germania. Se nel 2002 la spesa tedesca era pari al 45% del PIL, di 3,5 punti più alta di quella italiana, dopo dieci anni era scesa al 42,3% mentre quella del nostro Paese aveva raggiunto il 45,2. Se agli inizi del nuovo millennio la Germania era il “malato d’Europa” ora grazie ad una serie di importanti riforme strutturali è la locomotiva del nostro continente.

​Ma accanto alle dinamiche istituzionali generali occorre ragionare su possibili interventi sulla strumentazione delle decisioni di finanza pubblica che agevolino un percorso di riduzione della pressione fiscale.

​Durante l’esame parlamentare del disegno di legge di riforma dell’articolo 81 della Costituzione, furono avanzate proposte anche da autorevoli esponenti dirette ad introdurre in Costituzione un limite rigido alla pressione fiscale. Tali proposte, che pure partivano dalla consapevolezza di un problema reale, non appaiono convincenti. Non erano convincenti per diverse ragioni: perché la scelta sul livello della pressione fiscale rappresenta uno degli snodi essenziali della politica, risolto nei sistemi democratici dai rappresentanti eletti dai cittadini; perché non è possibile determinare in via generale ed astratta un livello ottimale di pressione fiscale; perché un vincolo del genere potrebbe in concreto determinare effetti contro intenzionali, nel caso di fissazione del tetto ad un livello alto, e si finirebbe paradossalmente per produrre un incentivo ad un aumento della pressione fiscale.

​Ma il problema segnalato dalle suddette proposte è reale ed è quindi opportuno verificare se non vi siano altre strategie per ridurre il pericolo di un eccessivo innalzamento della pressione fiscale. Proprio quel fenomeno di “illusione finanziaria”che spinge ad un ingiustificato aumento delle spese pubbliche, suggerisce che la strada maestra da percorrere consiste nell’elevazione del livello di consapevolezza e di responsabilità delle scelte di imposizione fiscale. In questa prospettiva, potrebbe essere utilmente previsto che il Parlamento fissi ogni anno, in anticipo rispetto all’approvazione della complessiva manovra di bilancio, il livello di pressione fiscale che dovrà essere rispettato nell’esercizio successivo (o anche nei tre anni successivi). Tale determinazione, oltre ad avere grande rilievo politico, avrebbe anche l’effetto di vincolare giuridicamente i successivi interventi legislativi, sia la legge di bilancio che le leggi di spesa infra-annuali. Una previsione analoga era del resto stata originariamente prevista dalla stessa legge n. 362 del 1988, la quale, nel definire il contenuto del Documento di programmazione economico finanziaria, che rappresentava l’architrave dell’attività di programmazione di bilancio e costituiva unvincolo per le successive decisioni di Parlamento e Governo, aveva espressamente previsto che il DPEF dovesse anche fissare le “regole di variazione delle entrate e delle spese del bilancio di competenza dello Stato e delle aziende autonome e degli enti pubblici ricompresi nel settore pubblico allargato per il periodo cui si riferisce il bilancio pluriennale” (articolo 3, comma 1, lettera e). Ma tale disposizione è rimasta sostanzialmente inattuata, e ciò ha sicuramente favorito l’adozione in questi ultimi anni di politiche di rientro dal disavanzo pubblico prevalentemente basate sull’aumento della pressione fiscale.

​D’altra parte, accanto alla cornice ordinamentale delle decisioni di finanza pubblica occorre anche concentrarsi sulle scelte di merito della politica fiscale. Il rapporto della Corte dei Conti dedica pagine assai istruttive all’analisi della struttura del nostro sistema fiscale. Un sistema costruito intorno alla centralità dell’imposta progressiva sul reddito che oltre a rappresentare la prima fonte di gettito per l’Erario è stato caricato di una pluralità di valenze e funzioni di carattere meta fiscale. Ma oggi, come del resto emerge tra le righe del rapporto stesso, quelle funzioni e quelle valenze si sono sostanzialmente vanificate. Ed oggi la struttura della nostra imposta sul reddito è fonte di ingiustizie, di freno alla crescita economica, di aumento della propensione all’evasione fiscale.

​In questa prospettiva, per uscire dalla trappola nella quale siamo caduti (vincoli di bilancio, difficoltà di ridurre la spesa, aumento delle tasse, crescita economica bassa, aumento delle spese, aumento della tasse) occorre un nuovo patto fiscale, occorre una politica economica e fiscale che rilanci davvero i processi di crescita economica. Per fare questo occorre realizzare, con coraggio, determinazione e un alto tasso d’innovazione, le principali riforme strutturali di cui il Paese ha davvero bisogno: la riforma fiscale e la riforma del welfare. Sono, queste, le due grandi riforme mancate che rappresentano le due dimensioni, tra loro complementari, del problema italiano.

​Un problema che oltre ad essere, in primo luogo, un problema di assetto dei pubblici poteri e di efficienza complessiva del sistema politico, istituzionale e amministrativo, è anche, a ben vedere, un problema di equità – sia dal lato della spesa che da quello dell’entrata – che investe la più intima struttura del “patto sociale”; un problema che si riverbera negativamente sulla funzionalità dello stesso sistema economico e che è causa di molte delle anomalie italiane.

​Da una parte abbiamo, infatti, un sistema fiscale oppressivo (non è altrimenti definibile un sistema impositivo che registra una pressione fiscale di oltre il 44%), con aliquote medie e marginali elevatissime, che lungi dal favorire correttezza, lealtà e trasparenza dei rapporti tra fisco e contribuente, alimenta l’economia sommersa e induce spesso a una selvaggia ricerca di metodi elusivi, se non alla vera e propria evasione fiscale, che nonostante le misure intraprese appare ancora molto lontana da un livello standard fisiologico registrato nella media delle economie avanzate.

​Un sistema fiscale che anche in questo caso si rivela debole con i forti (a cominciare proprio dagli evasori), e fin troppo agguerrito sui redditi da lavoro del ceto medio e pressoché indifferente alle esigenze delle famiglie con più figli, oltre che assai poco compassionevole con i cosiddetti “incapienti”, gli ultimi e più indifesi anelli della catena fiscale.

​Sotto altro profilo, e in modo speculare, si pone il problema di un sistema di protezione sociale ancora saldamente ancorato a una concezione universalistica del Welfare State, che i sempre più stringenti vincoli di bilancio, il contesto della competizione globale e l’invecchiamento della popolazione non rendono più sostenibile, e che appare sempre più inefficace nella sua funzione di contrasto alla povertà, di riduzione delle diseguaglianze e di tutela delle fasce più deboli della popolazione.

​Un sistema confusamente articolato tra i diversi livelli di governo che si rivela, nella sostanza, troppo debole per i più deboli e fin troppo generoso con chi è già tutelato rispetto a chi avanza nuove istanze di protezione sociale; un sistema che registra, inoltre, l’inconfutabile anomalia di un maggior peso relativo della spesa pensionistica rispetto ad altre destinazioni della spesa sociale e che sottende dunque anche un gigantesco conflitto inter-generazionale.

​Alla luce di come oggi sono concepiti e articolati, il sistema di welfare e il sistema fiscale non garantiscono la tenuta di quel patto sociale di cui sono parte integrante e in forza del quale il cittadino, a fronte dell’assolvimento del dovere fiscale e comunque nei casi di bisogno, ha diritto di ricevere dallo Stato servizi e livelli di protezione sociale adeguati.

​Dinanzi a questo scenario, non si tratta tuttavia oggi di optare tra meno servizi e meno tasse, o più tasse e più servizi. Non si tratta di replicare una trita dicotomia tra più o meno Stato e mercato o di disquisire sul valore giuridico universale del principio di uguaglianza e di “parità dei mezzi di partenza” o sul valore del talento, del merito e dello sforzo individuale, rievocando così dispute e divisioni di stampo ideologico ormai del tutto anacronistiche.

​Si tratta piuttosto di dotarsi di una buona dose di realismo progettuale per aggredire con forza e determinazione le due questioni centrali della riforma del welfare e della fiscalità, affrontandole però con un approccio unitario, che lungi dal risolversi in opere di aggiustamento o al massimo di manutenzione straordinaria, sia in grado di rinnovare il patto sociale secondo una logica liberale e solidale, declinata in modo organico e, soprattutto, sostenibile anche in termini di grandezze finanziare.

​In questa prospettiva, la riforma fiscale e la riforma del welfare devono essere realizzate secondo un disegno coerente e sinergico, volto a costruire un modello fortemente integrato di imposizione fiscale e di protezione sociale, capace di mettere al centro la famiglia e i suoi bisogni, di garantire davvero la massima tutela ai ceti medio-bassi e liberare al contempo una massa consistente di risorse finanziarie da destinare ad una drastica opera di riduzione del prelievo fiscale finalizzata al rilancio della crescita economica.

​Il patto fiscale rappresenta l’atto fondamentale di ogni comunità politica. L’atto nel quale i cittadini convengono nel reciproco riconoscimento dei diritti sociali ed economici e dei doveri fiscali. Il patto fiscale vigente nel nostro Paese ha oltre quaranta anni. È stato stipulato in una fase storica non solo lontana nel tempo ma molto differente dal punto di vista sociale ed economico. Occorre immaginare, oggi, un sistema fiscale più semplice, più coerente e molto più favorevole alla formazione della famiglia e alla creazione di ricchezza. Ci stiamo lavorando da tempo e a brevissimo saremo in condizione di presentare dettagliatamente le linee guida di questo nuovo patto fiscale che intendiamo proporre.

​A tutte queste considerazioni di merito, ovviamente, sin qui presentate come spunti per l’approfondimento del dibattito e del confronto, vanno aggiunte quelle relative al metodo. Trasparenza, responsabilità ed efficacia sono i principi su cui dovrà uniformarsi l’azione da qui ai prossimi anni. Senza un’inversione di rotta in questo senso, è difficile – per non dire impossibile – immaginare di modificare alla radice il meccanismo di gestione della finanza pubblica, che è stata vittima troppo spesso e troppo a lungo della violazione reiterata di tali principi basilari di buonaamministrazione.

​Insomma, il percorso è tracciato ma la strada da percorrere è ancora lunga e disseminata di ostacoli. Per superare le prove che ci attendono abbiamo bisogno diribadire una comune assunzione di responsabilità affinché, insieme, si pongano le basi per rimettere l’Italia in carreggiata e per darle un sistema più efficiente in grado di competere in Europa. Ciò non significa, almeno per noi, rinunciare alla nostra identità politica. Al contrario, significherà battersi per far valere le proposte in cui crediamo e che siamo convinti vadano nella giusta direzione rispetto agli obiettivi fissati.