Un Piano Marshall per l’Africa
21 Giugno 2007
Le sfide che attendono Robert Zoellick, di recente nominato Presidente della Banca Mondiale, sono tutte importanti, benché una in particolare appaia essere ineludibile e improcrastinabile: il processo di sviluppo dell’Africa, in particolar modo della zona sud-sahariana. Da decenni si discutono strategie di ogni sorta, e gli economisti hanno elaborato modelli tanto sofisticati ed “esteticamente” accattivanti che sembra paradossale dover constatare quanto tanti sforzi abbiano prodotto poco o nulla in termini di risultati concreti. Per questa ragione, proponiamo al neo presidente di fidarsi del buon esempio fornito dalla storia: una storia, peraltro, alla quale gli stessi economisti hanno offerto un inestimabile contributo.
È questo il caso del celebre Piano Marshall, il cui nome è debitore all’allora Segretario di Stato statunitense George Marshall. Nel 1947, in seguito all’istituzione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), si diede inizio al cosiddetto Piano Marshall, il più emblematico esempio di aiuto internazionale. Per l’amministrazione del fondo nel 1948 vennero istituiti due enti, “The European Recovery Program” (ERP) – sul fronte USA – e “L’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica” (OELE) – sul fronte europeo. Obiettivi dichiarati del piano d’aiuti erano la ripresa della domanda interna settoriale e la fine della spirale inflazionistica. Un simile programma poteva essere realizzato attraverso un forte investimento sulle materie prime e sull’industria siderurgica, energetica e meccanica.
A sessant’anni di distanza sono in molti a proporre un nuovo Piano Marshall per l’Africa, considerato l’alto tasso di povertà delle popolazioni dell’area sud-sahariana e che, in generale, oggi l’Africa appare più povera di vent’anni fa. È qui sorge un problema di non facile soluzione. Come si è appena scritto, l’istanza originaria del Piano Marshall non era tanto quella di devolvere aiuti umanitari, quanto di rappresentare uno strumento per la ricostruzione del sistema politico, economico e finanziario europeo uscito distrutto dalla seconda guerra mondiale. L’impianto politico si reggeva sulla cosiddetta “Export Led Growt Theory”: la scommessa che il processo di sviluppo economico potesse essere trainato da un aumento delle esportazioni. L’assunto era che un sistema economico può sperimentare una rapida crescita della domanda, massima produzione, altissima produttività, senza incorrere in una crisi dovuta alla bilancia dei pagamenti in deficit a condizione che si mantenga alto il livello di esportazioni. Gli effetti positivi di questi ultimi ricadranno sugli investimenti, sulla produttività e sulla competitività. È così che si pongono le condizioni per l’inizio di un possibile circolo virtuoso.
La logica che sottende la “Export Led Growt Theory” è che l’export garantisce la valuta per l’import, che la crescita di un paese si misura in base al fabbisogno di import e che per evitare una crisi della bilancia dei pagamenti, i Paesi sono soliti restringere la domanda, favorendo un processo recessivo. In definitiva, il modello di export led ha rappresentato una strategia per stimolare la crescita, senza correre il rischio di ridurre la domanda interna, mantenendo in equilibrio la bilancia dei pagamenti.
Considerate la natura e la logica del Piano Marshall, una sua possibile applicazione al caso Africa per mettere in moto il processo di sviluppo e ridurre sensibilmente la povertà interna richiederebbe un significativo cambiamento delle istituzioni politiche che dovrebbero gestire l’enorme fondo di investimenti.
Le ragioni del funzionamento del Piano Marshall, scrivono R. Glenn Hubbard and William Duggan (rispettivamente, Visiting Scholar all’American Enterprise Institute e membro del Council of Academical Advisors del medesimo istituto), risiedono in quattro condizioni. In primo luogo, nella presenza di un Paese ricco – gli Stati Uniti – che ha garantito i prestiti necessari alle imprese locali per avviare il processo di ricostruzione, imprese che hanno restituito i finanziamenti ai singoli governi europei; in secondo luogo, il fatto che i singoli governi europei hanno utilizzato tali fondi provenienti dalla restituzione per costruire infrastrutture necessarie alla produzione: porti, ferrovie ed autostrade. In terzo luogo, la presenza di governi europei disponibili ad una politica economica favorevole allo sviluppo di determinati settori strategici; infine, l’istituzione di comunità internazionali europee che hanno guidato e monitorato l’uso dei finanziamenti.
Tutto ciò rivela la presenza di enormi ostacoli per iniziare un eventuale Piano Marshall in un’area del mondo dove è oggettivamente difficile nel breve periodo immaginare la sussistenza di almeno alcune delle suddette condizioni. In particolare, risulta problematico pensare alla nascita di una serie di istituzioni locali ed internazionali in grado di monitorare e di orientare la restituzione dei prestiti affinché i governi locali li spendano per opere infrastrutturali. Inoltre, le dimensioni del continente africano renderebbero particolarmente difficili simili operazioni politiche.
Un secondo problema riguarda la presenza ed il contributo della comunità imprenditoriale. Gli artefici del Piano Marshall non furono tanto i politici quanto gli imprenditori. Oggi l’Africa è bisognosa praticamente di tutto e meritorie ONG sono quotidianamente impegnate ad offrire servizi essenziali alla vita delle popolazioni più povere. Il rischio è che un eventuale Piano Marshall fallisca a causa dell’ampiezza delle problematiche e dell’oggettiva difficoltà di circoscrivere l’obiettivo che con il Piano si intende raggiungere.
Si sa bene che gli aiuti umanitari vanno diritti al cuore delle persone, mentre i progetti imprenditoriali difficilmente superano il livello delle tasche degli imprenditori. Eppure, un efficace Piano per l’Africa sul modello del Piano Marshall chiede l’intervento della comunità imprenditoriale privata e solo in minima parte di quella politica nazionale ed internazionale (indispensabile ruolo di monitoraggio e di controllo). La quale avrebbe tuttavia il compito di coinvolgere i capitalisti privati in un’azione strategica tesa all’investimento in Africa piuttosto che altrove. In caso contrario, difficilmente la comunità internazionale degli investitori si sentirà coinvolta massicciamente come la stessa si sentì coinvolta nel secondo dopo guerra per consentire all’Europa di rialzare la testa.
Durante la sua relazione all’Università di Harward, in occasione del lancio pubblico del Piano che prese il suo nome, Marshall affermò con chiarezza che lo stato disastroso della struttura economica europea dopo la guerra era un problema che riguardava gli Stati Uniti: “La nostra proposta dovrebbe essere quella di rivitalizzare una funzionante economia mondiale, così come consentire l’emergere delle condizioni politiche e sociali nelle quali le libere istituzioni possono vivere. Una tale assistenza, sono convinto, non può essere affrontata fiaccamente come una qualsiasi crisi”.
La logica del Piano Marshall oggi ci spinge a guardare con interesse al ruolo della comunità imprenditoriale internazionale come il settore cruciale per lo sviluppo economico, politico e sociale del continente africano.