Un ricordo del ‘fratello maggiore’ Domenico Settembrini
06 Maggio 2012
Non è facile spiegare alle nuove generazioni, in una società come quella italiana, in cui tutti ormai si dicono liberali, cosa abbia rappresentato il lavoro intellettuale di Domenico Settembrini nei terribili ‘anni di piombo’ di cui si sta perdendo la memoria storica. Per darne una sia pur pallida idea, ricordo solo un film di Lina Wertmuller, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto: è la storia di un naufragio di un’imbarcazione di lusso, che porta il marinaio siciliano Gennaro Carunchio (Giancarlo Giannini) a trascorrere alcuni giorni su un’isoletta, in attesa di soccorso, con la ricca e seducente signora milanese Raffaella Pavone Lanzetti (Mariangela Melato). La carne è debole e tra i due avviene quel che era prevedibile. Il rapporto, però, è tutt’altro che facile: l’uomo è un comunista duro e puro ma è anche un inguaribile maschilista, la donna è di idee avanzate ma è anche un pò nazista verso «quel niger lì..». Durante una scenata, dopo aver riversato su Raffaella un crescendo di contumelie (‘buttana’, ‘sgualdrina’ etc.), per assestarle il colpo di grazia Gennaro la chiama ‘socialdemocratica’! Nessuna offesa, per lui, avrebbe potuto essere peggiore. L’episodio mi è tornato alla mente leggendo l’apologia dei regimi socialdemocratici, fatta sul numero di ‘Paradoxa’ da lui curato, Liberali davvero, da un politologo come Gianfranco Pasquino, da sempre schierato a sinistra.
Negli anni settanta, ‘socialdemocratico’ equivaleva a ‘socialfascista’ e a quanti come me (una sparutissima minoranza), nel vecchio partito socialista di Francesco De Martino, facevano l’elogio del laburismo inglese e dei regimi scandinavi veniva obiettato: «ma quei regimi hanno posto davvero fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo? Hanno forse abolito il capitalismo?». A guidare il partito che fu già di Filippo Turati c’era un professore napoletano di diritto romano, ex azionista, De Martino appunto, che aveva minacciato di nazionalizzare giornalai (e forse anche barbieri) se i socialisti fossero andati al potere «da soli». In questa atmosfera in cui mi capitò, in una Facoltà di Lettere e Filosofia della Repubblica, di sentire, nel corso di un esame di laurea, una relatrice obiettare al candidato, autore di una tesi sulla commedia inglese del Settecento, che nella sua interpretazione non c’era ombra di materialismo storico; in questa atmosfera, ripeto, che definire settaria sa di eufemismo, nel 1974 irrompono non solo il divertente film di Lina Wertmuller ma, altresì, due testi destinati, sui tempi lunghi, a rivoltare, da cima a fondo, come un calzino, la soffocante political culture italiana: l’Intervista politico-filosofica di Lucio Colletti e Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels di Domenico Settembrini, entrambi pubblicati dalla prestigiosa casa editrice Laterza.
Anche per ragioni accademiche, fece più scalpore il primo ma, col tempo, anche il secondo rappresentò non un sasso ma un macigno in piccionaia. Colletti faceva a pezzi la filosofia di Marx – la dialettica, la quantità che diventa qualità, la fine del capitalismo dedotta dal suo concetto e della sua ‘essenza’ etc.; Settembrini non solo ne demoliva il metodo delle scienze sociali, nelle scuole italiane diventato quasi ‘senso comune’, ma, poneva altresì, le premesse per rivedere criticamente tutta l’interpretazione della modernità e delle sue svolte epocali – le rivoluzioni atlantiche, la presunta controrivoluzione fascista, i regimi totalitari – che la letteratura marxista aveva elaborato, sulla base dei sacri testi del ‘socialismo scientifico’. Se fosse stato soltanto un animale accademico, un ‘topo di biblioteca’, le analisi di Settembrini – riprese nello stesso anno nel volumone Socialismo e rivoluzione dopo Marx (Ed. Guida) – avrebbero avuto una circolazione ridotta sennonché nello scontroso marchigiano, accanto all’impeccabile docente universitario, convivevano una coscienza morale pari almeno a quella del padre – un professore di liceo antifascista intransigente che aveva accettato un destino di povertà pur di non piegarsi al regime – e una tempra di polemista servita da una chiarezza di scrittura che ricordava i grandi elzeviristi del passato.
Se gli studiosi – quelli che hanno qualcosa da dire, s’intende, non i predicatori e i venditori di fumo – si dividono in pittori e in scultori, Settembrini apparteneva, senz’altro, alla seconda categoria. Il suo argomentare era caratterizzato da una logica implacabile portata a tagliare i grandi problemi della storia e della politica, con precisione, sì, ma, non di rado, anche con l’accetta – come gli rimproveravano, talora, amici e colleghi, che pur ne avevano grandissima stima. Era un ricercatore di razza che voleva sempre ‘vederci chiaro’ e non indulgeva , in virtù della ricordata tensione etica, a chiudere un occhio dinanzi alle ombre che uomini e movimenti, pur non lontani dalla sua etica politica, si portavano dietro. Fu lui, in particolare, a mettermi in guardia dai socialisti alla Kautsky, critici sì del marxleninismo, ma perché miravano agli stessi scopi – l’abolizione dell’economia di mercato – con strategie diverse e più rispettose dei diritti e delle libertà individuali (il che, peraltro, non era poco). Ma fu soprattutto lui – che nelle lettere chiamavo scherzosamente il mio ‘fratello maggiore’ – a rafforzare (e, forse, fin troppo) il mio penchant incontenibile per la demistificazione, per la critica spietata dei luoghi comuni, delle mitologie politiche nate dalla retorica e non dalla vita reale, delle ‘repubbliche immaginarie’ che non rimangono sogni nel cassetto ma si traducono in insurrezioni armate, in assassini di esponenti politici e di giornalisti scomodi . La sua Storia dell’idea antiborghese in Italia, 1860-1989: società del benessere, liberalismo, totalitarismo (Ed. Laterza 1991) è non poco emblematica di tale attitudine ed è così radicale e originale da sconcertare anche quanti come me erano stati da lui convertiti all’idea che non ci sono terze vie, di cui le nostre avanguardie intellettuali sarebbero le interpreti, ma solo la società aperta, da un lato, con la sua accettazione del mercato e dello ‘stile limitato’ della politica – leggi: democrazia liberale e sovranità del popolo nello spazio concesso dalla costituzione o, forse meglio, dai ‘diritti naturali’ indisponibili – e il dirigismo totalitario, dall’altro, con la sua idea forte di ‘bene comune’ chiaro, ovviamente, solo alle menti dei filosofi aspiranti reggitori.
In genere, realismo politico e rigore morale, nel nostro paese, non vanno a braccetto ma in Settembrini – ed era l’aspetto che ne faceva un rarissimo modello di umanità – era come se la coscienza kantiana e l’abito scientifico avessero contratto un matrimonio, se non d’amore, di convenienza, dopo averne sperimentato il reciproco vantaggio. Il realismo lo portava a mettere a fuoco una democrazia senza illusioni, come recita il titolo di un suo saggio del 1994 (Ed. Laterza), la coscienza morale non gli nascondeva il ‘disagio della civiltà’: la società degli individui era, per lui, l’orizzonte invalicabile del nostro mondo moderno ma il ‘giudizio di fatto’ non si traduceva, tout court, in un giudizio di valore.
Come fece rilevare in un suo scritto meno noto, Individualismo, diversità e identità. Il tema della diversità nell’illuminismo, il principio illuministico che «al di sopra dell’autonomo giudizio dell’individuo, di ogni singolo individuo, non v’è autorità legittima, perché ogni autorità è tale solamente se trova riscontro nella libera adesione della coscienza del singolo individuo» fa correre il rischio all’individualismo liberale di « precipitare nel suo contrario: dall’anarchia al dispotismo. Ciò è stato riconosciuto anche esplicitamente da due grandi classici del liberalismo, Montesquieu e John S. Mill. E’ stata riconosciuta, cioè, la necessità che la libertà individuale, la libertà di dissentire, lo scontro delle idee, delle passioni e degli interessi poggi, se la società non ne deve finire disintegrata, su una fede comune in alcuni principi fondamentali; fede che deve essere nei più, nella stragrande maggioranza, più forte ed indiscussa di quanto non lo sia l’attaccamento alle proprie idee particolari, ai propri interessi, al proprio "partito", di modo che questa fede, restando al di fuori e al di sopra del perpetuo scontro intorno alle idee e agli interessi personali o di gruppo, non solo non venga da questo tumulto neppure scalfita, ma costituisca anzi l’argine che serve a regolarne il pacifico svolgimento, al punto da essere essa a renderlo possibile; fede, in altri termini, che deve avere la stessa forza che per secoli ha avuto la fede nel trascendente».
Chi voleva fare di Settembrini il Pangloss del liberalismo contemporaneo aveva sbagliato indirizzo ma è non poco significativo che questa preoccupazione per le ‘ricuciture’ sociologiche neppure per un momento lo portasse a simpatizzare con quanti intendevano ‘eticizzare la politica’ e dare un supplemento d’anima a una nazione, come quella italiana, segnata dal familismo amorale e dalla ricerca continua e frenetica del ‘particulare’. I fautori della ‘riforma morale e intellettuale’gli piacevano poco.
In un saggio, che poteva leggersi come una sintesi magistrale del suo pensiero, Fascisti e azionisti, carissimi nemici. La ‘terza via’ fra corporativismo e liberalsocialismo, ‘Nuova Storia Contemporanea’(a. II, n.4, luglio-agosto 1998), scriveva: « perché la rivisitazione dell’azionismo costituisce (..) un’angolazione particolarmente proficua per comprendere le ragioni storiche della ‘anormalità’ italiana? Perché essa consente di mettere in luce come, a partire dalla cultura delle riviste del primo Novecento, l’Italia ha avuto una classe intellettuale che, salvo pochissime eccezioni, è stata caratterizzata da un orientamento rivoluzionario palingenetico, profondamente elitario e aristocratico, profondamente diffidente, per non dire sprezzante, anche quando credeva di parlare e di battersi in nome della più avanzata democrazia, verso la massa degli uomini comuni, degli uomini della strada, ritenuta materia amorfa, cui andava dall’alto insufflata un’anima. Le divisioni, le vere e proprie fratture, come quella mortale tra fascisti e azionisti, che possiamo prendere, per quest’aspetto, a simbolo di tutto l’antifascismo, intervenivano soltanto sul tipo di anima da insufflare». In poche frasi, venivano fuori tutte le sue ‘sudate carte’, dalla ricordata Storia dell’idea antiborghese in Italia al molto discusso Fascismo controrivoluzione imperfetta: movimento al servizio del capitale o via italiana al bolscevismo?(Ed. Sansoni 1978) che, nel titolo, recava già l’implicita risposta – nessuno avrebbe potuto credere, infatti, che un bastian contrario per vocazione come Settembrini intendesse riproporre l’idea del fascismo come ‘movimento al servizio del capitale’.
Non sempre, è persino superfluo ricordarlo, quanti gli sono stati vicini e lo hanno considerato non solo un amico ma un maestro – Nico Berti, Raimondo Cubeddu, Claudio Palazzolo, Gaetano Pecora, Luciano Pellicani, per limitarci a questi – ne hanno condiviso le prese di posizione e i giudizi sulla ‘politica del giorno’: a distanza di anni, a volte aveva ragione lui ma altre volte partiva in quarta nell’esaltare o demonizzare professionisti del potere che, forse, non meritavano né la condanna né la lode. Non si poteva, però, non riconoscergli la disponibilità (così poco italiana) a ‘metterci la faccia’ e a lottare tenacemente e lealmente per far valere le sue idee.
Tra le ‘arene di combattimento’ era particolarmente legato alla collaborazione ai quotidiani: ‘La Stampa, ‘Il Giornale’ (soprattutto), ‘Il Messaggero’ furono le sue tribune preferite ma gli piaceva anche molto scrivere sui periodici settimanali e mensili. Quando le collaborazioni gli vennero a mancare, nel mutato clima politico seguito a tangentopoli e alla crisi dei partiti della Prima Repubblica, subì, quasi, un trauma ma non certo per la ferita narcisistica di non vedersi più il nome stampato sui giornali. A gettarlo in una profonda depressione fu invece il sentirsi come un cavaliere disarcionato, costretto senza cavallo e senza lancia, ad abbandonare il torneo. Agli studi e alla ricerca scientifica aveva già dato molto: ora gli veniva a mancare l’opportunità di comunicarne i frutti anche al droghiere e al portiere, e di spiegare all’uomo della strada, in un linguaggio accessibile a tutte le intelligenze, che quando si parla di politica de te fabula narratur. A differenza di tanti nostri filosofi e scienziati politici che, scrivendo in angloitaliese, cercano di nascondere il loro aristocraticismo radical chic, Settembrini scriveva in purissimo stile italiano e toscano, fermamente convinto, com’era, che «ci si deve far capire» da tutti se davvero si intende «prendere sul serio i diritti» e la democrazia dei moderni.