Una lettera, un mittente misterioso e quel cappio dondolato dal vento

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Una lettera, un mittente misterioso e quel cappio dondolato dal vento

31 Luglio 2011

«Primo febbraio duemilauno, ore sette» ripetuto all’infinito.

In questo modo la sveglia digitale vicina al televisore mi comunicava, col solito trasporto entusiastico, che ormai era ora di alzarsi.

Quando lo stato di completa incoscienza tipico del primo risveglio cessò, mi ricordai che avrei pure potuto continuare a dormire: c’era sciopero. Il sindacato aveva alzato un polverone per via dei salari da fame che il Ministero non accennava a voler cambiare. Da questo punto di vista sono sempre stato d’accordo coi comunisti: gli scioperi sono proprio una bella trovata. Per quei giorni, la Facoltà di Criminologia avrebbe fatto a meno di me.

In questo stato abulico tra il lusco e il rinco ritornai fra le coperte e mi misi a poltrire a occhi chiusi, sperando di riprendere sonno.

Frattanto sentivo che la casa si stava svegliando e che prendere sonno in quel trambusto sarebbe stato come pretendere di uscire illeso dai saldi di fine stagione. Com’è ovvio, lo sciopero degli insegnanti non aveva dato vacanze ai miei coinquilini.

Come al solito, appena sceso dal letto, feci qualche esercizietto per sciogliermi i muscoli e poi andai a lavarmi. Dai vetri smerigliati della finestra del bagno filtrava una luce particolarissima che cambiava l’atmosfera, sembrava quasi di stare in una dimensione estranea.

Uscendo dal bagno per poco non andai a sbattere con lo Specializzando.

Andava più di fretta del solito quel giorno.

Accesi il televisore del tinello e ascoltai le notizie del mattino. La voce monotona del giornalista scandiva le solite novità: terremoti, animalisti in protesta, stragi del sabato sera, attentati di mafia. Tutto monotono e rassicurante.

Certo non era il modo migliore di iniziare una giornata. Basta ascoltare una notizia del genere per infastidirsi: “Trovato ieri notte nelle campagne intorno a Bari il cadavere di Gaetano Mendo. Il corpo del boss era all’interno della sua macchina esplosa. Gaetano Mendo era implicato nella tratta delle schiave, nel racket della prostituzione, nello sbarco di clandestini e nel traffico di droga. L’omicidio potrebbe essere imputabile alla cosca rivale del mafioso oppure agli albanesi. Mendo è stato ucciso con modalità del tutto particolari: è stato fatto svestire e poi condotto nella sua tomba di fuoco. Il suo riconoscimento è stato reso possibile dai documenti trovati nei vestiti”.

Quanta inutile teatralità: “…tomba di fuoco”. Spensi il televisore, mi vestii e uscii. Diedi un’occhiata all’orario: erano le sette e mezza precise. L’ora era propizia per una passeggiata: niente trambusto, poche auto e l’aria ancora fresca. La zona in cui abito è periferica, vicina alla stazione di Bari Scalo, e il traffico non è molto intenso. La mia intenzione era comprare un paio di giornali, ritirare la posta e comprare un gelato.

Non avevo la menoma intenzione di fare nulla d’impegnativo per quella settimana di sciopero, neanche le parole crociate.

Scambiai le solite quattro chiacchiere col mio edicolante di fiducia, Mario, e poi me ne tornai a casa. Alla salumeria rapii un gelato al limone e lo mangiai leggendo alcuni trafiletti.

La notizia del ritrovamento del mafioso era nella cronaca, corredata da opportune e inopportune considerazioni e adeguatamente infiocchettata come si conviene a una notizia del genere.

L’articolo di un opinionista si apriva con la frase «Li arrestiamo o li premiamo?».

Certamente una frase d’effetto, ma di cattivo gusto. Il giornalista diceva che quando i mafiosi si uccidono tra loro dovremmo dedicargli la stessa attenzione che dedicheremmo a due cani che si sbranano.

Quanto inutile scalpore, per giunta su un mediocre foglio di provincia.

Ritornato a casa e ritirai la posta.

Bollette, volantini, lettere per lo Specializzando, alcune offerte promozionali per la Dirigente e, cosa straordinaria, anche una lettera per me.

Entrato in casa depositai le lettere nella coppa d’argento sul mobile all’ingresso e poi, nella tranquillità della mia camera, mi dedicai alla mia lettera.

Non c’era il mittente e il mio indirizzo era stato scritto con la macchina da scrivere: autentico miracolo retrò. Dentro c’era solo una pagina di libro: «Cesare, guardati da Bruto; fa attenzione a Cassio; non ti avvicinare a Casca; tieni d’occhio Cinna; non ti fidare di Trebonio; osserva bene Metello Cimbro; Decio Bruto non ti ama; tu hai fatto torto a Caio Ligario. Non v’è che un proposito in tutti questi uomini, ed esso è diretto contro Cesare. Se tu non sei immortale, stà…» e s’interrompeva qui.

Era anonima e all’interno non vi era alcun biglietto.

Presi la busta fra le mani per vedere se vi era rimasta qualche traccia, ma ovviamente tutto era assolutamente pulito. Neanche la busta in sé per sé poteva rappresentare qualche possibile via di sviluppo: si trattava di una volgare busta gialla senza alcuna intestazione o particolarità. Non c’era il francobollo: l’avevano portata a mano.

L’unica via percorribile mi era proposta solo da quella pagina strappata.

La osservai con la massima attenzione: la carta era bianca, liscia e lo strappo particolarmente preciso.

Evidentemente apparteneva a una edizione non economica e lo strappo era stato praticato con una riga o con un tagliacarte, forse per paura di devastare troppo gravemente il libro.

Che aveva voluto comunicarmi il mittente misterioso con quel messaggio strampalato?

Il dettaglio più strano, però, pesava quintali: sul nome di Cesare, a matita, era stato scritto il cognome di un personaggio abbastanza illustre nella comunità barese. Il cognome di un assessore molto potente e agganciato.

Si diceva fosse anche amico di un latitante e che sapesse perfino dov’era nascosto, ma che, proprio per questa sua influenza, la polizia non lo metteva sotto torchio.

Chi lo aveva dalla sua, si trattasse anche di un cretino patentato e immatricolato, aveva una sistemazione invidiabile o al Comune o nel suo partito.

A Bari era lui il santo in paradiso che tutti vorrebbero avere.

Si diceva che avesse distrutto ragazzi capacissimi o reso potenti degli imbecilli solo per dimostrare che lui era un dio.

Mi ricordai dove avevo già visto quella pagina. Era la terza scena del secondo atto del "Giulio Cesare" di Shakespeare. Avevo comprato da poco un libro con la sua opera omnia e la cercai. Confrontai la pagina che mi era stata inviata con quella del libro che avevo e notai che le due pagine erano perfettamente identiche: il misterioso mittente doveva avere il mio stesso libro.

Mi fermai un momento al centro della stanza: era evidente che doveva essere uno scherzo. Qualche amico che doveva avermi organizzato una caccia al tesoro. Strano, visto che il mio compleanno era ben lontano, ma allo stesso tempo divertente: in questo modo non sarei rimasto a marcire in casa. Decisi di star al gioco e di vedere dove mi avrebbe portato. Sempre ammesso che dello scherzo di un amico si trattasse.

L’unica cosa da fare, quindi, in quel momento, era passare dalla mia amica Margherita, alla libreria da dove avevo comprato io quel libro, e chiederle chi altro l’aveva richiesto.

Era un libro pubblicato da una piccola casa editrice locale: nei computer ci sarebbe stato sicuramente il nome degli acquirenti della settimana, visto che lo si poteva avere solo su ordinazione.

Col motorino ci misi poco ad arrivare.

Margherita stava sistemando alcune copie de L’ignoranza di Milan Kundera. Fu abbastanza felice di vedermi, se non altro ero un diversivo. Le spiegai cosa mi serviva. In pochi istanti apparse una schermata con quattro nomi: il mio, quello di Guglielmo d’Orton, quello di Giuliana Mantano e quello del mio amico Massimiliano.

In effetti, a Bari, dove già si legge poco, era un miracolo che ben quattro copie dell’opera omnia di Shakespeare fossero state acquistate. Le chiesi se qualcuno le aveva acquistate la settimana precedente, ma lei mi disse che non c’erano state ordinazioni. Ovviamente. Eravamo solo noi quattro ad averlo comprato nell’arco di tre settimane. E far risalire ancor più nel passato la ricerca non aveva senso: perché tenersi per un mese un libro e poi ricordarsi di mandare la pagina?

Ringraziai Margherita e me ne andai.

Quando fui fuori mi sedetti un attimo sul mio motorino e osservai il foglietto che avevo stretto fra indice e pollice. Sicuramente era stato Massimiliano a organizzare lo scherzo, ma se stavano così le cose, benché l’idea più immediata fosse andare da lui, tanto valeva godersi la suspense e far visita agli altri due prima. Con un po’ di fortuna li avrei trovati sull’elenco telefonico.

Guglielmo d’Orton era sull’elenco e l’abitazione non era molto distante. Anche Giuliana Mantano era sull’elenco, ma lei era più lontana di tre o quattro isolati. Infine il mio amico era quello più lontano (più o meno dalle parti di casa mia): questo mi fece convincere che sarei passato da lui ritornando a casa.

Non persi altro tempo e raggiunsi il primo indirizzo.

Stando alla targhetta, d’Orton doveva essere un avvocato e, poiché c’era solo il suo nome sulla targhetta, presumevo che fosse scapolo.

Citofonai e gli chiesi se potevo salire. Strano: da quando si apre la porta a un estraneo senza appuntamento?

Salii e bussai. Quando mi aprì, gli dissi la prima cosa che mi venne in mente: «Buongiorno, vengo qui da parte della Libreria del Porto. Ci risulta che lei ha recentemente acquistato una edizione dell’opera omnia di William Shakespeare. Sono venuto ad accertarmi che non sia difettata» e fra me e me risi perché era proprio una bella fantasia immaginare un incaricato di una libreria che va in giro assicurandosi che i libri venduti non siano difettati, «A me non sembra. Aspetti un momento, mi faccia controllare». Il fatto che lui non notasse questa stranezza mi diede da riflettere: o era stupido o non aveva la più pallida idea di come funzionasse una libreria.

Ritornò con la copia del libro e mi disse che potevo controllare. Effettivamente la pagina c’era: il libro era in perfette condizioni. Lo ringraziai e me ne andai.

In strada rilessi l’indirizzo della donna.

Trovarla sarebbe stato difficile: abitava in uno di quei giganteschi alveari umani dalle parti di via Camillo Rosalba.

Quando fui lì dovetti cercare il suo nome su un citofono di proporzioni bibliche. Abitava al settimo piano e, per una lieta coincidenza, quel giorno tutti e due gli ascensori erano guasti. Dodici piani a piedi dovetti salire, senza contare che il sottoscritto è nato più pigro di un quadro attaccato alla parete.

Arrivai alla porta del tutto senza fiato e sentivo le ginocchia che mi si piegavano. Mi aprì una cosina inconsistente e graziosa come una ballerina da carillon. Aveva fini capelli castani e occhi verdissimi corredati da una boccuccia delicata che sembrava disegnata da Magritte. «Desidera?» mi chiese con voce flautata. Le risposi tutta la tiritera che avevo già propinato all’avvocato, e lei mi disse: «Sì. Me lo ricordo. Aspetta un attimo». Con grande grazia sparì dietro un angolo lasciandomi lì sulla soglia della porta. Dopo circa quindici secondi ritornò con il libro e me lo porse. «Ecco. Controlli pure». Anche lei o era stupida o a digiuno di libri. Anche quel volume era in regola.

Il mittente anonimo, allora, era il mio amico.

Mentre andavo a casa sua mi feci qualche domanda: dove voleva andare a parare con una trovata così teatrale? Poi ci riflettei bene e mi ricordai che Massimiliano lavorava nel teatro ed essere teatrale era il suo pane. Abitava in un palazzone astruso e arzigogolato di tipica architettura sessantottina. Ricordo ancora la prima volta che ci andai perché voleva farmi vedere la sua nuova casa: mi persi per venti minuti e alla fine dovetti chiamarlo col cellulare per farmi venire a prendere.

Legai il motore davanti all’ingresso e bussai al citofono. Nessuna risposta. Bussai ancora e con maggiore insistenza, ma ancora non ebbi risposta. Alla fine, proprio quando stavo per andarmene, ebbi la fortuna di un signore che stava entrando nel palazzo e approfittai per intrufolarmi.

Quando arrivai alla sua porta bussai, tanto che i vicini iniziavano a fare capolino dagli spiragli aperti delle loro porte, ma continuai perché doveva essere in casa: la sua macchina era parcheggiata e lui si muoveva solo in macchina.

Aprii la porta facendo passare una scheda telefonica lungo la fessura slabbrata dal tempo fra la porta e lo stipite ed entrai in casa. Era in ordine e in silenzio, ma tuttavia avvertivo una strana sensazione di malessere che non riuscivo a spiegarmi. Sentivo che da qualche parte della casa proveniva la corrente fredda dell’esterno.

Andai nel suo studiolo per vedere se eventualmente aveva la cuffia ad alto volume ed era per questo che non mi sentiva, ma lui non c’era. In compenso rinvenni sul piano di lavoro il suo libro di Shakespeare mutilato di una pagina e vicino un tagliacarte.

Iniziavo a infreddolirmi e, seguendo la corrente, arrivai fino alla finestra aperta: quella della camera da letto.

Quando mi trovai sulla soglia fui come raggelato: c’era il cadavere del mio amico che penzolava da un cappio dondolato dal vento.

(Fine capitolo 1)