Una madrassa liberale

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Una madrassa liberale

28 Giugno 2006

“Stai attento alle cose che desideri perché potresti ottenerle” ha detto, mi pare, Oscar Wilde ed è una frase che si adatta molto bene alla storia dell’IMT di Lucca e in generale a molta parte delle vicende nazionali.
Non facciamo che stracciarci le vesti in convegni, seminari, saggi e articoli di fondo per quanto l’Italia difetti di formazione, di ricerca, di innovazione, di cervelli adatti alla competizione globale. Poi, quando qualcuno prova a mettervi rimedio è obbligato a pentirsene amaramente. Fare progetti e promesse, non costa e non impegna. Ma quando si tratta di ottenere e di realizzare allora le cose cambiano all’improvviso: quello che sembrava buono e giovevole, diviene pericoloso e oscuro e chi vi ha messo mano si trasforma in un losco individuo dagli interessi inconfessabili. Meglio buttare tutto all’aria e ricominciare a piangersi addosso, tutti insieme appassionatamente.
Così potrebbe accadere a Lucca; la storia è presto detta. La città voleva una sua Università e non è un fatto insolito. L’Italia è punteggiata da una miriade di piccoli atenei semisconosciuti, frutto di un malinteso orgoglio localistico e della pigrizia dei tanti figli e figlie di mammà che a pranzo e cena apparecchiati e camicie ben stirate non sono disposti a rinunciarvi manco morti. Figurarsi andare a studiare “fuorisede”!
La strada naturale, dunque, pareva essere quella di dare vita all’ennesima Università sottocasa, magari alimentata dai docenti di un illustre circondario e destinata a vivacchiare trasformandosi in un diplomificio. Uno dei tanti: questa volta per i giovani della Lucchesia e della Garfagnana. Si poteva, però, tentare una strada diversa. L’idea fu quella di sfruttare la sinergia con importati Atenei della zona, guardare alle esigenze del territorio e offrire un prodotto di eccellenza ma con caratteristiche diverse rispetto all’esistente. Il principio ispiratore è quello tipico di qualsiasi commercio: metti un solo negozio di lusso in una strada e resterà deserta, mettine molti e avrai il “miglio d’oro”.
Non era difficile capire quello che  manca nell’offerta, pur cospicua, della zona: una formazione esclusivamente post-graduate di respiro internazionale ma fortemente collegata con i bisogni del territorio. Con in più l’attenzione a non creare una concorrenza frontale con l’Università di Pisa, con la Normale o con il S.Anna. Per questo si rinunziò all’idea di organizzare corsi universitari triennali ed anche biennali: non perché sarebbe stato impossibile ma per moderazione e buon senso. Per differenziare l’offerta e creare le premesse per una proficua collaborazione.
Chiave di volta del progetto fu individuato nella ricerca sull’innovazione, descrivendo un arco che va dall’innovazione sociale fino a quella tecnologica, scandita da  5 diversi dottorati. Il primo è dedicato all’innovazione politica, ovvero alle trasformazioni delle pratiche democratiche e al cambiamento istituzionale di quei regimi impegnati in transizioni verso la democrazia. Lo scopo è quello di formare ricercatori ma, soprattutto, esperti al servizio sia delle organizzazioni internazionali che delle esigenze di proiezione globale delle aziende locali e italiane. Il secondo riguarda l’innovazione economica, con l’idea di fondo che i mercati vanno certamente regolati ma il set di regole necessario dev’essere continuamente aggiornato e sincronizzato con gli sviluppi tumultuosi delle moderne economie. Il terzo è dedicato alle tecnologie e al management dei beni culturali e ambientali. Un indirizzo cruciale per la vocazione turistica del territorio che ha bisogno di non sedere sugli allori di una tradizione indiscussa e contemporaneamente di evitare la strada del crudo sfruttamento. Il quarto è indirizzato all’innovazione informatica, con particolare riguardo allo studio delle nuove reti “wide area” che ha forti ricadute sia a livello di imprese, sia oramai anche sul fronte della Pubblica Amministrazione. L’ultimo è il più spinto sul piano dell’innovazione perché è dedicato ad un settore di frontiera come le biotecnologie e la biorobotica, e corrisponde ad un’area di ricerca in cui l’Italia può aprirsi strade molto promettenti, anche a confronto con le migliori esperienze internazionali.
Tutto questo è ciò che venne pensato e previsto all’inizio della vicenda dell’Imt di Lucca. Quello che non si era previsto è stato il suo incredibile successo, registrato dalla scuola in appena due anni di vita. E’ forse questo il piccolo dettaglio che ha dato fastidio. L’idea iniziale ha subito mostrato di poter camminare sulle sue gambe, perché aveva una sua corrispondenza con la realtà e con le aspettative di studenti e docenti. Non sarebbe stata una piccola sinecura o l’occasione di racimolare qualche fondo pubblico nel buon nome della ricerca. No: si trattava di un luogo a cui dedicare attenzione, risorse, lavoro. Le Università che compongono il Consorzio dal quale IMT è stata generata – la Luiss-Guido Carli; il S.Anna di Pisa; il Politecnico di Milano e la Statale di Pisa – lo hanno compreso. E hanno messo a disposizione le loro energie migliori, cooperando al di fuori da logiche localistiche e corporative.
Nell’ultima selezione sono giunte 1387 domande per 40 borse di studio e 75 posti complessivi. Il 43,2 per cento di queste domande provenivano da cittadini stranieri. Ventisei solo dalla Cina, sì avete capito bene: 26 studenti da un paese dove ormai vanno a studiare anche i giovani americani più promettenti. 60 domande complessive da paesi asiatici, 11 dall’India, 10 dalla Russia, alcune anche dagli Usa. E’ un dato importante se si considera che il numero di studenti stranieri a livello di PhD in Italia sono appena l’1 per cento, contro il 13 della Spagna, il 27 degli Usa, 29 del Regno Unito e il 36 del Belgio (Scoreboard Ocse).
Altrettanto ragguardevole è stato il risultato nell’arruolamento dei research fellow, individuati grazie a sistemi di selezione di standard internazionale, con commissioni composte anche da docenti stranieri e all’insegna della più assoluta trasparenza. Solo per fare un esempio, nell’area “Economia e Mercati” si sono registrate 36 domande in due settimane per contratti di ricerca pluriennali, che non assicurano il posto fisso. 14 di queste provengono da candidati con titoli conseguiti nelle prime 100 Università del mondo e 20 da candidati laureati nelle prime 500. 12 domande sono venute dagli Stati Uniti e 5 da italiani dottorati all’estero, che con la Scuola di Lucca hanno trovato un’occasione credibile per tornare in Italia. Non è con preghiere o appelli patriottistici che si inverte la tanto temuta “fuga di cervelli”, ma fornendo opportunità concrete di vita e di lavoro. L’attività didattica e di ricerca si svolge in un campus dove alloggiano docenti e studenti, con lezioni frontali d’aula e con la verifica effettuata da board internazionali che si riuniscono almeno due volte l’anno a Lucca.
Fin qui numeri, percentuali, statistiche: dicono molto, ma non spiegano tutto. E allora, per comprendere, meglio non nascondersi dietro il dito. Forse il peccato originale di questa esperienza lucchese consiste, come si legge in giro, nell’essere “l’Università di Pera”. Qui la colpa e l’infamia: una “istituzione” che sfugge alle egemonie consolidate nella università italiana. Si tratta, in realtà, di un riflesso condizionato che perde di vista quanto di più nuovo si sta producendo proprio nel mondo universitario. E’ vero, il presidente del Senato ci ha messo intelligenza, immaginazione, esperienza, in questa impresa. Ci ha creduto  e continua a credere che sia una cosa buona per tutti. Ma l’ingerenza è altra cosa. E non vi è chi possa testimoniare che neppure un usciere è stato indicato da Pera. Per il resto è vero il contrario: si tratta di una università che ha un forte tratto critico e liberale, nel quale operano e si confrontano docenti che, ad esempio, sono o sono stati consulenti di Prodi e altri che, invece, non ritengono che votare per il centrodestra sia prerogativa esclusiva degli ignoranti. Si tratta di una esperienza che, inoltre, coniuga in modo innovativo la presenza pubblica e il contributo di privati e che, fino ad oggi, ha recuperato al circuito dell’istruzione alta circa 9,5 milioni di euro messi a disposizione in gran parte dagli enti e le fondazioni che operano a Lucca. Non ne facciamo un mistero:  verso di essa sempre più imprese, aziende, università straniere manifestano attenzione e chiedono di investire.

La polemica è scoppiata al momento dell’istituzionalizzazione della Scuola, quando il Ministro Moratti ha deciso di dare continuità a questo tentativo assieme a quello che, parallelamente e sempre nell’ambito post-graduate, hanno sviluppato, nel campo degli studi umanistici, Umberto Eco e Aldo Schiavone. A questo punto il “vizietto” corporativo si è risvegliato. Si è manifestato pubblicamente, attraverso polemiche di tale irruenza da far comprendere quanto possa essere duro, nella pratica, aderire al principio di concorrenza. Ma si sta sviluppando, soprattutto, nell’ombra, attraverso trame che mirano a travolgere quel poco o molto che si è fatto. Non c’è, per questo, da scoraggiarsi. Quest’esperienza ha già il merito di aver chiarito qualcosa di fondamentale. Il destino dell’Università italiana non si cambia solo con le grandi Riforme. Assai più efficaci risultano gli esperimenti empirici, dal basso che rompano la corteccia spessa del corporativismo, portati avanti da gruppi di ricercatori coesi e motivati, e che puntino ad ottenere contagi positivi verso l’intero sistema. L’università, per sua natura, deve essere tenuta lontana dalla lotta politica. Anche chi crede nella logica dello spoil system non può ammettere che esso sia applicato alle scuole e all’insegnamento. Di scuole come quelle di Lucca ce ne vorrebbero molte di più. E’ la risposta liberale e laica alle madrasse che nel mondo formano all’odio e alla violenza, al pensiero unico e dogmatico del fondamentalismo. Ma se quelle proliferano indisturbate e attecchiscono anche nelle nostre città, mentre la madrassa liberale di Lucca si fa di tutto per chiuderla, vuol dire che si preparano tempi davvero bui.

da Il Riformista