Una miscela esplosiva per il capitalismo italiano
24 Marzo 2007
Matteo Colaninno, vice presidente dei giovani industriali italiani, è intervenuto ieri ad un convegno presso la Luiss Guido Carli di Roma sul tema “I giovani e le opportunità del capitalismo familiare italiano”. Sollecitato da una platea di studenti “affamati”, ha descritto il suo punto di vista sullo stato di salute dell’economia del Bel Paese. La difesa istituzionale del tessuto imprenditoriale italiano era quasi inevitabile: “L’Italia ritorna a crescere”, ha detto, “dimostrando che il quinquennio di crescita zero che ci siamo appena lasciati alle spalle, era dovuto alla ristrutturazione ed alla selezione naturale indotta dalla globalizzazione e dalla pressione delle economie in via di sviluppo”. La critica è implicita: tutti coloro che avevano dato la colpa delle sciagurate performance nostrane al capitalismo familiare,avevano commesso un grave errore. Colaninno difende il modo di fare impresa che ci caratterizza, come presidente dei giovani industriali e come vice presidente di Piaggio, azienda che la sua famiglia rilevò nel 1994. Parla quindi dal pulpito istituzionale di Confindustria, e dalla scrivania privata della casa di Pontedera, azienda globale tra le più vivaci del panorama economico europeo. Il presidente, incalzato dai numerosi studenti di economia presenti in sala, racconta la sua particolare esperienza di “figlio di imprenditore”, tratto che condivide con circa il 70% degli affiliati tra i giovani industriali. Parla della sua condizione e con estrema serenità. Parla di suo padre, Roberto, definendolo “l’imprenditore”. Lo descrive, nella sua volontà di guardare il futuro, nella sua tensione alla distruzione creativa di shumpeteriana memoria. Caratterizza un modo di fare business, dove le file delle manovre di investimento sono decise da famiglie che tradizionalmente possiedono i capitali e le credenziali. Le famiglie del business italiano possiedono la propensione al rischio e il fiuto economico per garantire la crescita e lo sviluppo. Il capitalismo della passione e dell’affetto, della dedizione assoluta al businesss di famiglia, quel modo di fare impresa è un nostro tratto peculiare che dobbiamo difendere a tutti costi. Attività che vengono portate avanti da piccoli imprenditori che vivono l’impresa, da famiglie che incarnano nell’impresa un sistema di valori ed un’etica, sono risorse distintive e come tali irrinunciabili.
Tuttavia al capitalismo familiare italiano, che pur si è distinto in questi anni di accesa competizione, manca qualcosa. Le imprese italiane sono sottocapitalizzate, spesso poco orientate al rischio e per certi versi conservatrici. Si trovano a giocare in un sistema bancario che fa leva sull’enorme esposizione debitoria che caratterizza la struttura patrimoniale di gran parte di esse.
L’ambasciatore Usa in Italia Ronald Spogli a margine del convegno sul private equity organizzato dalla American Chamber of Commerce in Italy ha discusso della possibilità che i fondi di private equity americani possano investire in grandi gruppi italiani. In effetti ci fu un interessamento del fondo Blackstone a Telecom in autunno, ma sono soprattutto i 4,5 milioni di piccole e medie imprese che attirano l’attenzione degli investitori d’oltreoceano. I fondi, in generale, entrano nel capitale di aziende non quotate proponendosi di disinvestire nel medio termine realizzando una plusvalenza avrebbe un duplice effetto: da un lato, diminuendo il rapporto tra capitale di credito e capitale proprio, aumenterebbe il costo del capitale e come logica conseguenza accentuerebbe la ricerca dei flussi di cassa che l’attività è in grado di generare, mantenendo alta la tensione al profitto. Dall’altro lato, aumentando la solidità patrimoniale, svilupperebbe una maggior indipendenza dal sistema creditizio e una maggior capacità di sfruttare la leva debitoria.
Anche se risulta evidente che il capitalismo di stampo familiare è molto diverso e per certi versi persino opposto al modo di operare dei fondi di investimento, le possibilità che si dischiudono dall’incontro tra i due mondi sono notevoli. Unire la logica della gestione imprenditoriale valoriale e affettiva tipica del capitalismo made in Italy con la logica dinamica del profitto di marca finanziaria potrebbe rappresentare un algoritmo esplosivo per la competitività del sistema Italia.