Una nuova proposta o l’Europa morirà

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Una nuova proposta o l’Europa morirà

23 Marzo 2017

La vulgata vorrebbe che nel Secondo dopo-guerra gli esordi dell’Europa unita siano stati sostenuti da una forte e condivisa consapevolezza identitaria e che poi questa si sarebbe smarrita col trascorrere del tempo. In realtà le cose non furono così semplici. Se s’indagano i motivi ideali che ispiravano allora i sostenitori dell’unità europea, si scoprirà che almeno agli inizi la distanza che li separava era grande. C’erano alcuni leader politici cristiani e democratici che erano sospinti dai medesimi ideali e, soprattutto, da un comune tratto biografico: l’aver patito sulla propria pelle alcuni dei drammi provocati dallo scisma europeo che aveva caratterizzato fin lì il Novecento.

Konrad Adenauer era nato a Colonia, capitale del Reno: il fiume che aveva segnato geograficamente, e ancor più metaforicamente, la divisione dell’Europa sulla quale si erano innescati Primo e Secondo conflitto mondiale. Robert Schuman era alsaziano e la sua terra fu francese, poi tedesca e poi tornò francese. Alcide De Gasperi era trentino: per questo, suddito dell’Impero asburgico e deputato a Vienna prima di divenire il principale ricostruttore dell’Italia dopo la catastrofe del fascismo e della sconfitta.

Il patrimonio ideale e il vissuto concorrevano a far comprendere loro la necessità di edificare un’epoca di pace che chiudesse con gli orrori del Novecento, ricucendo la rottura spirituale che, quantomeno a partire dal 1914, aveva squassato l’anima dell’Europa dando spazio a nazionalismi esasperati e provocando alcune delle più orribili pagine che la storia abbia mai scritto. Per avere un futuro differente, insomma, era necessaria un’opera di ricomposizione del passato: ritrovare quelle radici cristiano-giudaiche che avevano unificato il Vecchio Continente e che la prima metà del Novecento, con il suo portato di guerra e violenza, aveva travolto.

Questa impostazione ha poco o nulla a che fare con la piattaforma che Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, concepì nell’isola di Ventotene. Il loro manifesto è assai più citato che letto. Esso propone il superamento dello stato tradizionale e l’europeismo come una sorta d’ideologia di sostituzione. Io Ulisse, il bellissimo volume autobiografico scritto da Altiero Spinelli, spiega chiaramente le motivazioni esistenziali alla base di quell’elaborazione. Il Manifesto di Ventotene nella sua interpretazione autentica è innanzi tutto la risposta alla disillusione verso il comunismo: è la proposizione di un internazionalismo diverso e di un’altra rivoluzione, compatibili con la democrazia.

Questi due europeismi, dunque – quello dei padri fondatori e quello di Spinelli -, hanno una consistenza in un caso identitaria, nell’altro ideologica. Per il primo la costruzione del futuro passa innanzitutto per una restaurazione del passato; il secondo ambisce invece a rivoluzionare il presente. Anche per questo i due europeismi delle origini scontano una differente concezione dei rapporti transatlantici: per i cristiano-democratici la ricostruzione dell’Europa è un pezzo della ricomposizione dell’Occidente, da cui il rapporto con gli Stati Uniti deriva naturalmente anche se tra le due sponde dell’Atlantico rimane una distanza; per i federalisti alla Spinelli l’unità europea è invece un progetto contrapposto alla società capitalista e, per questo, l’Europa è pensata come una alternativa culturale, economica, strategica all’egemonia americana. In tal senso, il Manifesto di Ventotene inclina persino a suggestioni che echeggiano il trotzkismo.

I due approcci propongono entrambi una soluzione federalista, ancorché differentemente intesa nel rapporto con le sovranità nazionali. Forse per questo sono talvolta posti sullo stesso piano da analisi un po’ troppo disinvolte. Il fatto che le due visioni propongano una coincidente soluzione istituzionale, piuttosto che significare una unicità di corredo identitario discende soltanto da una comune posizione minoritaria all’alba del secondo dopoguerra, quando la divisione bipolare del mondo non era ancora divenuta senso comune neppure tra le classi dirigenti europee.

In quei frangenti storici, infatti, i progetti di unificazione federalista del Continente potevano interessare certamente alla Germania e all’Italia, Paesi che avevano dovuto subire la resa incondizionata: una sorte mai spettata a nessuno prima di allora. Potevano essere compresi e condivisi dai piccoli stati del Benelux, che per due volte nel volgere di trent’anni avevano provato cosa volesse dire essere vasi di coccio tra vasi di ferro. Non potevano, invece, essere presi in seria considerazione dagli inglesi e neppure da quei francesi che erano stati miracolosamente ricompresi nel campo dei vincitori. Non si trattava solo di una questione di rango. Ancor più, era una questione d’imperium che entrambi quei Paesi ritenevano di poter ancora a lungo esercitare sui rispettivi territori di competenza. Vista dalla loro prospettiva, al più l’Europa avrebbe potuto assumere una veste confederale, salvaguardando in toto la sovranità nazionale e l’estensione sui rispettivi territori d’oltre mare.

La situazione cambiò nel 1947 con lo scoppio della Guerra Fredda. Nei lunghi anni durante i quali il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica rischiò di produrre un nuovo conflitto mondiale che avrebbe potuto investire il suolo europeo, la ricerca di forme più stringenti di unità in Europa divenne una necessità, per di più fortemente caldeggiata dagli Stati Uniti.

In particolare, diviene una necessità poter contare sul contributo che le risorse economiche e strategiche della Germania Occidentale avrebbero potuto portare alla causa della difesa comune, senza che ciò potesse significare riarmare i progetti d’egemonia tedesca dai quali erano scaturiti i due precedenti conflitti mondiali. L’istituzione della Ceca – la comunità del carbone dell’acciaio – e il progetto di difesa comune – la Ced -, sono entrambi figli di quest’esigenza. E all’ombra di quest’urgenza trovarono spazio e attualità i progetti dei primi federalisti.

Sicché non è azzardato affermare che l’identità della prima stagione dell’unificazione europea non fu né quella dei Padri fondatori né quella del Manifesto di Ventotene. Fu, assai più concretamente, una identità disegnata in negativo: l’anticomunismo come portato della Guerra Fredda. Il che aiuta a capire la fragilità di quel processo.

Prendiamo il tema della difesa comune. Quando la Guerra Fredda raggiunse il suo apice, l’unità degli eserciti sembrò essere cosa fatta. Al primo allentarsi della morsa, però, perplessità e obiezioni presero il sopravvento. La morte di Stalin, la “piccola distensione” connessa al ritorno al potere di Churchill in Gran Bretagna, l’inaugurarsi dapprima dell’equilibrio del terrore e poi della coesistenza pacifica, il punto di mediazione col quale si chiuse la guerra di Corea, disarmarono i sostenitori dell’esercito europeo, decretandone il fallimento.

De Gasperi, che di quel fallimento fu un assoluto protagonista, ebbe nell’occasione la mente e il cuore per consegnarci due lasciti imperituri. Ci disse innanzi tutto che un trasferimento di sovranità così importante ha un senso solo se si crea un nucleo di potere politico condiviso: in caso contrario esso rischia di essere una pericolosa fuga in avanti. E ci disse poi che per l’Italia – l’Italia che allora era ultima tra i grandi o prima tra i piccoli – è ancor più imprescindibile che il processo di trasferimento della sovranità crei una effettiva comunità di destino: in caso contrario si rischia solo di favorire, seppur involontariamente, le esigenze nazionali dei francesi e dei tedeschi.

La sconfitta della Ced fu la grande occasione mancata dai federalisti. Da allora in poi lo scontro tra approccio federalista e approccio confederale/intergovernativo resterà sullo sfondo, mentre la scena sarà conquistata dal funzionalismo del quale Jean Monnet era stato il principale teorico e interprete. Il funzionalismo è un approccio di tipo essenzialmente metodologico. Esso prevede che per la realizzazione di uno specifico obiettivo, impossibile da conseguire in ambito esclusivamente nazionale, gli Stati membri trasferiscano all’Unione il minimo di sovranità necessaria per realizzarlo. Una volta sedimentato quel trasferimento, è possibile ripetere il processo individuando obiettivi di volta in volta più ambiziosi. Sicché, l’integrazione e la creazione di un potere sovranazionale si propongono come il risultato finale di una dinamica graduale e ben ordinata.

I principali terreni di sperimentazione di tale metodo furono individuati nelle conferenze che si svolsero a Messina e a Venezia negli anni subito successivi al fallimento della Ced. Si tratta dell’energia nucleare a fini pacifici e del mercato economico. Inizialmente fu il primo terreno, che inevitabilmente investiva più da presso la sfera politica e strategica, ad apparire più favorevole all’edificazione comunitaria. E invece, al dunque fu il mercato economico il volano dell’Europa unita.

Quest’esito fu determinato da molti fattori e contingenze. Non ultimo la fine della IV Repubblica francese e il ritorno al potere di De Gaulle. Raymond Aron, con acume, notò che con grande probabilità se nel 1957 il Generale fosse stato al potere i Trattati di Roma non sarebbero stati firmati; se nel 1958 fosse rimasta la IV Repubblica non sarebbero stati confermati.

De Gaulle, infatti, riteneva che l’ordine internazionale dovesse fondarsi sulle nazioni. Oggi lo si definirebbe un “sovranista”. Credeva a un’Europa confederale nella quale la Francia avrebbe dovuto svolgere un ruolo guida. Era tuttavia anche un realista. Comprese che la Francia, e in particolare l’agricoltura francese, avrebbero potuto ricevere dal mercato unico una spinta decisiva per tirarsi fuori da una condizione economica difficile e inaugurare una stagione di crescita.

Da allora si fissò un paradigma dell’integrazione e il metodo Monnet rappresentò il compromesso possibile tra federalisti e confederalisti; il compromesso cioè tra integrazione e sovranità nazionale. Il terreno economico fu quello privilegiato. L’asse franco-tedesco divenne l’architrave della costruzione.

L’edificazione di quell’asse fu senz’altro favorita dalla comunanza generazionale tra Adenauer e De Gaulle. Le “leggi” scritte e non scritte dettate dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale fissavano la preminenza francese in ambito strategico, la quale era compensata dalla forza espansiva dell’economia tedesca. Tale equilibrio determinava infine anche il perimetro nel quale si sarebbero sviluppati i rapporti con l’alleato americano, soprattutto dopo la visita di Kennedy a Berlino e la conseguente revisione del trattato bilaterale tra Francia e Germania, ricondotto nell’ambito della compatibilità atlantica.

Questo paradigma rimase essenzialmente inalterato fino alla fine del secolo breve. Gli allargamenti successivi che si sarebbero compiuti dopo il ritiro di De Gaulle, ferocemente contrario per motivi identitari e strategici all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea, hanno sfumato la coerenza del disegno ma non ne hanno rivoluzionato il quadro. Se ci addentrassimo in una analisi più ravvicinata della vita dell’Unione in quel tempo, apparirebbe peraltro chiaro come la sua coesione si sia rafforzata nei momenti duri della Guerra Fredda, per ritrarsi di fronte al rafforzamento degli interessi nazionali, soprattutto in ambito strategico e di politica estera, nelle fasi di distensione. Il che dovrebbe far riflettere sull’importanza che per l’Europa unita ha avuto la sua identità negativa: l’anticomunismo. Per quanto appunto definita in negativo, essa rappresentava un puntello importante dell’edificio.

Con la fine del secolo breve molte cose infatti cambiano. L’uscita dalla Guerra Fredda, e il conseguente “grande allargamento” dovuto alla necessità di ancorare i Paesi usciti dal blocco sovietico altrimenti condannati alla deriva strategica, porta l’unione a ingrandirsi oltre misura: dai sei soci fondatori si arriva a ventotto. Crescono le differenze economiche, culturali e spirituali; senza più il puntello dell’anticomunismo la ricerca di una identità diviene urgente e ancor più importante. La Germania si riunifica e cadono molti dei vincoli fissati dalla lunga fase di conflittualità post-bellica, sicché anche il significato politico-strategico dell’asse franco-tedesco non è più lo stesso. Il mondo si globalizza, diviene multipolare e i mercati si dilatano a dismisura; in prospettiva il rapporto con l’alleato americano, non più scontato, si complica.

La risposta preminente dell’Europa a questo cambio epocale è Maastricht, la creazione della moneta unica, la implicita definizione di una zona d’integrazione rafforzata. Il terreno economico si conferma, dunque, quello privilegiato. Il problema identitario viene consapevolmente degradato a sovrastruttura. La ricerca di una nuova definizione politico-istituzionale viene impedita dalla diffidenza dei popoli e dalle contingenze internazionali che, al tempo della guerra in Iraq, vedono le principali nazioni dell’unione spaccarsi come una mela.

Si potrebbe pensare che tutto ciò sia avvenuto entro i confini del metodo Monnet. Ma non è così. Tanto per cominciare, il trasferimento di sovranità che si realizza privandosi della possibilità di stampare moneta e di utilizzare domesticamente la leva della svalutazione non è di “modica quantità”. E, soprattutto, la mancata edificazione di un nucleo di potere politico forte, all’altezza dell’ambizione, ha reso le condizioni del trasferimento di sovranità peculiari e addirittura pericolose. La sovranità, infatti, non viene trasferita da un ambito nazionale a un ambito sovranazionale entrambi retti dalle regole di fondo della democrazia. Il deficit istituzionale dal quale è afflitta l’Unione di oggi fa sì che la sovranità esca dall’ambito della nazione ma, lungo la strada, evapori assai più che trasferirsi, lasciando inevitabilmente spazio a poteri che sfuggono al controllo democratico. Questa dinamica allontana l’idea che l’Europa possa essere una comunità di destino condivisa e, soprattutto, alimenta la contrapposizione tra popoli ed élites che rischia di divenire la frattura più importante nello scenario politico del nostro tempo.

Per questo, quanti vorrebbero poggiare sulla distinzione tra europeisti e anti-europeisti le loro scelte di politica anche domestica, rischiano di fermarsi in superficie senza comprendere le forze che realmente agitano questa cesura. In fondo, l’Europa di oggi non piace né ai cosiddetti “sovranisti” né a quanti hanno condiviso il sogno dei Padri fondatori e non è difficile profezia che questa deriva porti l’Europa di oggi a morire, rendendo del tutto superflua la contesa sulla convenienza o meno di uscire dall’euro. Anche i suoi più strenui difensori, infatti, non possono non ammettere che l’euro in tanto ha un senso in quanto e fino a quando l’Europa c’è.

Per tutte queste ragioni, quanti – tra cui il sottoscritto – sono realmente convinti che il XXI secolo abbia portato con sé problemi inaffrontabili in ambito esclusivamente nazionale e irrisolvibili restando ancorati a un ordine mondiale fondato sulle sole nazioni (e ciò, evidentemente, vale soprattutto per quelle nazioni che non hanno massa critica sufficiente a competere in ambito tanto economico quanto strategico), quanti sono convinti di tutto questo, non possono giocare in difesa. Non possono trincerarsi in una realtà che ha avuto indubbi meriti nel corso della seconda metà del Novecento ma che oggi non appare più rispondere ai bisogni, alle spinte, alle urgenze del nuovo secolo. Hanno l’obbligo della proposta. Hanno la necessità di articolare la proposta di un’altra Europa insieme più antica e più moderna. Grazie.

[Il testo è la versione integrale dell’intervento di Gaetano Quagliariello, presidente di IDEA, all’evento “Europa 1957-2017: cosa resterà di questi anni sessanta?”, Biblioteca del Senato, Roma]