Una politica estera “umile” non proteggerà l’America del XXI secolo

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Una politica estera “umile” non proteggerà l’America del XXI secolo

12 Marzo 2010

Per le persone, l’umiltà è tipicamente considerata una virtù desiderabile, opposta al suo contrario, l’orgoglio, spesso deprecato e largamente percepito come caratteristica personale meno desiderabile. Tanto l’umiltà che l’orgoglio sono semplicemente aspetti diversi di una consapevolezza di sé, punti divergenti lungo il continuum comportamentale che assumiamo rispetto agli altri. Se l”umiltà connota di per sé modestia e rispetto degli altri, l’orgoglio è percepito come una maschera dell’arroganza ed è frequentemente accompagnato da uno sgradevole seguito di altri indesiderabili attributi.

Non sorprende allora che Dwight Eisenhower vinca generalmente la sfida per il titolo di “most popular” contro Lyndon Johnson. Parallelamente, Winston Churchill, chiamato a descrivere il suo rivale politico, Clement Attlee, leader del Labour Party, lo definì come “un uomo modesto con molto di modesto”.  L’umiltà non era certo il suo punto di forza;  anche all’interno della sua famiglia dichiarava: "Io sono un grande uomo". E come se lo fu. L’umiltà di fronte a Hitler e alla Germania nazista, a dispetto del consiglio di Gandhi di non resistere all’invasione fascista della Bretagna, avrebbe reso Churchill un abietto fallimento della storia. 

Di conseguenza il conseguimento di un appropriato equilibrio è irraggiungibile. Eppure, nonostante vi sia un’implicita imponderabilità nell’azione di quantificare e giudicare l’umanità nella sua dimensione individuale, abbiamo a lungo posto sullo stesso piano larghe entità politiche – si va dagli imperi ai regni sino agli stati-nazione – e gli individui. Lo facciamo in molti modi, in lungo e in largo, forse perché è più facile comprendere la complessità internazionale in termini familiari, o forse, ancor di più per finalità propagandistiche tese ad aumentare o delegittimare i portatori di diversi attributi antropomorfici.

Affibbiare caratteristiche umane a organizzazioni politiche, è comunque essenzialmente falso e fuorviante, oltre che spesso pericoloso. Tutte le nazioni hanno interessi, e alcune hanno valori, e i loro rispettivi interessi e valori spesso confliggono. Alcuni, come Woodrow Wilson e i suoi seguaci (mi viene in mente Barack Obama) vedono essenzialmente tutti i conflitti come risolvibili attraverso strumenti diplomatici ove  l’umiltà prevale come modus operandi nella vita internazionale, specialmente per il più potente ovvero il loro stesso paese. Altri, in particolare Theodore Roosvelt e Ronald Reagan, interpretavano il conflitto come qualcosa di inerente alla natura umana, da evitare quando possibile, ma accettato quando il costo in termini di interessi e di valori risultava troppo alto. I wilsoniani guardano a ciò come al peccato di orgoglio che soppianta  l’umiltà, inevitabilmente portatore di avverse conseguenze, benché nulla adducano a prova che l’umiltà mai abbia dissuaso dalla belligeranza. Per la verità, nell’arena internazionale, l’umiltà può risultare fatale. 

E si giunge così alla questione decisiva: entrambe le scuole Wilson-Obama e Roosvelt-Reagan ambiscono alla pace internazionale e alla sicurezza, ma esse divergono significativamente sui metodi. Perciò tanto per gli analisti che per il politici, almeno nel contesto statunitense, ciò che si deve preferire è un realismo dal sangue freddo. Invece di curarci continuamente della maggiore o minore considerazione di cui godiamo presso amici e nemici, tanto nelle loro università che nei loro salotti, dovremmo preoccuparci di quanto, tanto noi che i nostri alleati, siamo effettivamente protetti. La politica internazionale non ha nulla della politica domestica, e raramente i sondaggi politici determinano il risultato. La nostra indagine, lungi dall’essere un mero computo delle risorse militari in campo, prende in esame necessariamente tanto fattori di natura politica che economica al fine di accertare che il c.d. “big stick” statunitense sia effettivamente tale (con l’espressione big stick l’autore fa riferimento alla pratica del bastone e della carota, Ndt).  

Il realismo non è una via di mezzo tra umiltà e orgoglio, ma un attributo professionale di chi gestisce gli affari dello Stato, qualcosa di necessario a livello di governo nazionale, profondamente diverso dalle caratteristiche personali le quali non hanno nulla a che vedere con l’oggetto della nostra analisi. In assenza di realismo, come nel caso dell’azione di Wilson, le conseguenze sono raramente favorevoli e finiscono spesso con l’affliggere i nostri stessi interessi nazionali. E anche quando c’è del realismo, esso è solo una  condizione necessaria e raramente sufficiente per il successo, come avrebbe scoperto in Vietnam quel consumato realista che fu Richard Nixon (raramente caricaturalizzato per essere stato uomo pieno di umiltà). Va da sé che con l’umiltà assurta a politica nazionale le cose non sarebbero andate meglio in Vietnam; essa avrebbe solamente accelerato la data della vittoria comunista, la susseguente sottomissione del Vietnam del Sud e l’eccidio di massa ad opera dei Khmer rossi in Cambogia.

Naturalmente, nessuno discute il fatto che le illusioni ottiche e le pose politiche possano essere comode e che verosimilmente un moderato approccio possa essere desiderabile in certe circostanze. Fu dopotutto Theodore Roosevelt che suggerì che si dovesse “parlar dolcemente”, lui che fu insignito del premio Nobel per la pace per aver compiuto i buoni uffici a seguito della guerra russo-giapponese.  Ma sotto le illusione ottiche resta la dura realtà, la quale quasi inevitabilmente implica un appoggio assertivo degli interessi statunitensi. Questo non significa assumere un approccio troppo orgoglioso e insufficientemente umile; il fatto è che tutto ciò non ha nulla a che vedere con gli attributi individuali.

A dispetto della nozione euro-centrica che descrive un’America isolazionista, fuori dal principali dinamiche globali sino alla Prima Guerra Mondiale, noi statunitensi abbiamo affrontato minacce e sfide lungo tutta la nostra storia, generalmente con una profonda comprensione del potere, ciò che i marxisti amano definire “correlazione di forze”. Oggi, nonostante l’odierna crisi economica, noi statunitensi ci consideriamo ancora incredibilmente forti, tanto in termini comparativi che assoluti, e questa forza ci aiuta a definire le scelte che ci troviamo innanzi. Coloro che preferiscono l’aureo percorso dell’umiltà sostengono che la nostra forza è troppo piena di orgoglio e che essa è alla base di molte delle sfide attuali che dobbiamo affrontare, e che minor forza e più umiltà ridurrebbero queste sfide. Questa è certamente l’opinione predominante in Europa, e verosimilmente sembra essere prevalente nella Washington dell’era di Obama.

La più realistica opinione a questo riguardo è che, non tanto la forza statunitense, quanto la debolezza statunitense risulta provocatoria, cosa che gli europei farebbero bene a mettersi in testa dopo essersi rifugiati per quasi sessant’anni sotto l’ombrello strategico statunitense. Una politica statunitense infusa di umiltà funzionerà bene fino a quando loro – e noi stessi – non avremo bisogno di vera protezione. E’ virtù del realismo quella di non tralasciare mai questo insegnamento. 

John R. Bolton ha ricoperto la carica di ambasciatore statunitense all’ONU dall’Agosto del 2005 al Dicembre del 2006. E’ attualmente Senior Fellow all’American Enterprise Institute

© In Character

Traduzione di Edoardo Ferrazzani