Una scienza per tutti ma non per tutto
25 Maggio 2008
La rivista “Oxygen” è arrivata al numero 3. Viene pubblicata dall’editore Codice, ha una grafica raffinata, interventi scritti da nomi importanti, ed è piena di foto che vanno dal carino al molto bello. La frase apposta come epigrafe in copertina e tesa a darne subito un senso al lettore è “La scienza per tutti”. E’ per questo motivo che “Oxygen” pone una serie di questioni che interessano non solo il cittadino curioso in generale, ma proprio coloro che si occupano di politica facendola in prima persona oppure – è il caso di chi scrive – osservandola. Una “scienza per tutti” rinvia infatti non solo alla divulgazione scientifica, ma al campo più vasto e intricato di relazioni reciproche che corrono fra scienza e politica, scienza e potere, scienza e democrazia, scienza e opinione pubblica. Sulla relazione fra spazio pubblico e tecnoscienza crediamo ci sia poco da discutere e ci si debba limitare a constatare: il rapporto fra l’uno e l’altra per uno qualsiasi dei versanti indicati vale oggi come nel passato. Sarebbe più opportuno forse parlare, invece che di scienza, di tecnoscienza: quell’intreccio oggi inestricabile fra ricerca scientifica e tecnologia nel quale l’una è indistinguibile dall’altra. Ma probabilmente l’appeal dalla copertina non sarebbe della stessa intensità. Le questioni che la rivista pone rinviano ad altrettante domande: qual è la rilevanza pubblica della tecnoscienza? Che cosa significa la tecnoscienza per la politica? In che modo la politica è intervenuta in passato e interviene oggi nella tecnoscienza? E’ legittimo che la politica intervenga nelle questioni che hanno a che fare con la tecnoscienza? La tecnoscienza è “per tutti” come si legge in copertina? Se sì, in che senso lo è? Per le ricadute, per le competenze, per le interferenze, per le responsabilità?
Le risposte che troviamo all’interno (a giudicare solo da questo numero) non sono univoche: nell’editoriale di Luca Cavalli Sforza si accredita una immagine illuminista del rapporto fra scienza e cittadini e un rapporto di dover essere: la scienza rischiara le menti, dunque sarebbe opportuno che essa si diffondesse fra i cittadini. Leggiamo ancora: il modo in cui la scienza si diffonde è vario (verticale, orizzontale, attraverso i media, nella scuola, nella società, nella pratica); alla diffusione della scienza talvolta si oppone una reazione da parte dei cittadini di non accettazione, di resistenza, di rifiuto della scienza stessa. Se questo accade, l’effetto illumimante e progressivo indotto dalla scienza non ha modo di verificarsi: la reazione antiscientifica è da considerare antiprogressiva, reazionaria, segno di arretratezza culturale e sottosviluppo, antimoderna. Tale reazione deve essere vinta, e questa vittoria deve annoverarsi fra gli obiettivi di una battaglia da condurre, fra le conquiste di una civiltà autentica. Qui siamo di fronte alla classica versione nella quale la scienza scende dall’alto in basso e porta conoscenze già perfettamente formate ai cittadini: i cittadini, da parte loro, non hanno che da accoglierle.
Leggiamo poi gli articoli di Giuseppe Longo, Massimiano Bucchi, Steven Shapin. Non ci sarebbe neppure bisogno di presentare questi autori: il primo (che scrive anche su queste pagine) studioso di informatica e scrittore, il secondo sociologo della scienza, il terzo autore di un famoso studio su Hobbes, la scienza e la società del suo tempo scritto a quattro mani con Simon Shaffer e considerato come una tappa assai significativa nella storia della scienza degli ultimi anni. Tutti e tre questi autori sono molto attenti alla dinamica complessa della formazione della scienza, della tecnica, della tecnoscienza, al rapporto tutt’altro che lineare fra la tecnoscienza e la cultura, la società, la politica. Per questo motivo li scegliamo fra gli altri che partecipano al numero: sono un ottimo indicatore per comprendere il modo in cui nascita, sviluppo e trasformazioni della tecnoscienza sono interpretati da una comunità scientifica che appartiene a più di una disciplina.
Tutti e tre parlano di scienza e società, scienza e politica, scienza e esseri umani (o non-umani, come fa Longo scrivendo dei robot e delle questioni che pongono): ma lo fanno in modo molto diverso rispetto alle polemiche degli anni Sessanta. Quegli anni vedevano da una parte i puristi della scienza considerata come un processo e un’attività autonoma e separata da tutto il resto, determinata solo da fattori interni, e dall’altra coloro che sostenevano la determinatezza sociale (la non-neutralità, si diceva allora) della scienza. I termini della polemica si sono spostati e affinati, gli schieramenti contrapposti sono ancora contrapposti ma lungo linee di spaccatura diverse rispetto al passato: si è divenuti consapevoli che il rapporto inevitabile della scienza con la società e con la politica non indebolisce affatto l’autorevolezza della scienza o l’efficacia della tecnologia, non rende affatto meno vere le teorie o meno forti gli interventi. La genesi di ciò che è scienza o tecnologia, oppure tecnoscienza, viene ricondotta alla interazione fra sapere, cultura, potere, pratiche; viene paragonata in modo proficuo con la genesi di ciò che alla fine non riceve il bollino “scienza” o “tecnologia” sulle sue produzioni e i suoi risultati; i successi vengono tenuti presenti quanto gli insuccessi e i fallimenti; si mettono in rilievo elementi esterni alla ricerca quali il consenso desiderato e la retorica utilizzata, e li si indica come mezzi decisivi per far sì che una teoria o una soluzione tecnica si affermino: è sempre all’interno di parametri accettati, di tradizioni culturali, di strategie politiche, di pratiche sociali, che una certa teoria diviene scienza, che una soluzione tecnica si impone. L’elemento della tradizione culturale emerge in primo piano: sono infatti le tradizioni culturali che selezionano, indirizzano, scelgono ciò che si chiama scienza, ciò che si chiama tecnica.
Che rilevanza ha dal punto di vista politico tutto questo? E’ cambiato il modo in cui si pensa il rapporto tra i cittadini e la scienza: la scienza non scende più dall’alto, per essere accolta da cittadini illuminati e progressisti o respinta da cittadini oscurantisti. Oggi si ritiene che avvenga sempre uno scambio non necessariamente armonioso fra scienza, cittadini e potere: in questo scambio tutti i soggetti svolgono un ruolo e si modificano. La scienza si modella sulle proteste o sulle esigenze che provengono dai cittadini e dal potere politico; i cittadini pongono domande, negoziano che cosa accettare e che cosa respingere delle soluzioni che vengono loro proposte, accettano o rifiutano; il potere politico pone esigenze, stabilisce requisiti, concede finanziamenti, appoggia pubblicamente i progetti che ritiene i più adatti.
Si tratta di una impostazione della quale sarebbe falso sopravvalutare la coerenza, ma il cui stile complessivo è leggibile in modo chiaro, soprattutto per differenza rispetto a un passato determinista e alle posizioni scientiste. Si tratta di una impostazione molto diversa rispetto a quella verticalista che abbiamo illustrato all’inizio: qui tutti (potere, cultura, cittadini, tradizioni, istituzioni) svolgono una parte, e la parte che svolgono deve essere tenuta in considerazione se si vuole capire la dinamica reale della scienza, della tecnica, delle scelte pubbliche in questi settori, delle proteste che tali scelte possono suscitare.
Crediamo che tutto questo sarà utile se davvero opzioni come il ricorso al nucleare o la produzione di OGM, con le polemiche che presumibilmente queste scelte porteranno con sé, si tradurranno in realtà.
recensione a “Oxygen”, n. 3, aprile 2008