Università: la “casta” proletaria degli ex baroni
24 Agosto 2007
Come tutte le caste anche quella dei professori universitari è il risultato della mancata mobilità ed apertura del sistema istituzionale. Di conseguenza essa riflette i pochi pregi e i molti difetti di un sistema nel quale non esiste la concorrenza. Nella fattispecie tra atenei pubblici ed atenei privati. Per accedere a tutti i gradi della carriera di ruolo, da quella di ricercatori a quella degli ordinari –quelli che in altri tempi, quando erano soltanto all’incirca tremila, venivano definiti i ‘baroni’– bisogna infatti assoggettarsi agli stessi concorsi che, nei vari gradi della carriera, danno la garanzia di un vitalizio indipendente dalla produttività scientifica e didattica.
Ovviamente quello del passato non era un sistema che dal punto di vista della produttività scientifica e delle ricadute sociali poteva definirsi ottimale, ma quando si è cercato di cambiarlo la situazione è addirittura peggiorata. In generale, ‘baroni’, un tempo, si dedicavano ai propri studi, alle proprie attività professionali, ai concorsi e, se restava tempo anche all’attività didattica. Le eccezioni, quelle che davano lustro alla professione intesa come vocazione scientifica e didattica, non erano poche, ma la gran parte dei giovani studiosi impiegava il proprio tempo nel prepararsi a cogliere i frutti di un lungo, duro e spesso frustrante apprendistato, e i ‘baroni’ facevano per l’appunto i ‘baroni’. I consigli di facoltà erano pochi, i punti da discutere non eccessivi, e su tutte le cose importanti non era difficile trovare un accordo tra i pochi colleghi che contavano. Lo spirito di casta era forte e questo impediva che i panni sporchi venissero lavati in pubblico anche perché il timore reverenziale degli studenti era tale che quasi nessuno osava metterne in discussione preparazione, impegno ed attività didattica. Certo gli stipendi non erano un granché, ma si trattava appunto di una vocazione, e poco importava se per far carriera era necessario godere di un patrimonio familiare che consentiva appunto di farla.
Questa, fino agli anni settanta era la situazione, e non era modificata dalla circostanza che nell’università ci fossero anche dei professori, non soltanto dei ‘baroni’, che per la ricerca e per la didattica vivessero, allargando la propria famiglia a quella dei propri allievi.
Poi, con la cosiddetta ‘democratizzazione del sistema universitario’ le cose sono cambiate. Ai vari consigli hanno avuto accesso tutte le componenti dell’università, l’attività burocratica è cresciuta a dismisura, tutte le decisioni son passate al vaglio di un regime assembleare. Oggi il voto di un ‘barone’ conta quanto quello di un ricercatore e, in alcuni ambiti, come quello di un rappresentante degli studenti o del personale.
La casta si è allargata fino a dissolversi. Rimangono pochi privilegi, come quello di non avere un cartellino da timbrare, ed il prestigio di cui i ‘docenti universitari’ (ormai non più ‘professori’) pensano ancora di godere. La licealizzazione (ad essere buoni) dell’università ha dato vita ad una classe di scontenti e di frustrati malpagati e ad una classe di eletti che svolgono attività professionali e consulenze ad alto reddito, scrivono sui giornali, fanno politica culturale e talora semplicemente politica.
La casta si è così dissolta generando classi sociali estremamente diversificate quando non antagoniste. Le università hanno aumentato a dismisura quella che si chiama ‘offerta didattica’, e a coprirla vengono chiamati non soltanto i docenti, ma anche esperti vari e sempre più spesso giovani aspiranti accademici che come preparazione specifica sono talora indistinguibili da ‘lavoratori socialmente utili’. Sempre più spesso nei vari consigli ci si ritrova a votare con persone che non si conoscono e su argomenti dell’ordine del giorno di cui soltanto i presidi, i vari direttori (di dipartimento o di classe) ed i managers didattici capiscono qualcosa. Ci si risveglia quando si parla di concorsi, ma soltanto di quelli che riguardano la propria disciplina o i propri allievi.
L’università è così entrata in uno stato comatoso che qualcuno cerca di arrestare sbattendo la testa contro interessi corporativi sempre più forti. Eppure la guarigione non sarebbe impossibile se soltanto si introducesse qualche elemento di dinamismo e di mobilità. Ad esempio, eliminando la necessità di chiedere il nulla osta della propria facoltà per insegnare anche (ed ovviamente assicurando di svolgere il proprio carico didattico) in altre università, e con semplici provvedimenti tendenti a favorire la mobilità tra un ateneo ed un altro.
La ‘casta proletaria’ è infatti il frutto di provvedimenti che impediscono ad un’università di avvalersi di un docente reputato illustre o, più semplicemente utile, e di carriere che oramai si svolgono quasi tutte all’interno della medesima università, spesso di quella nella quale si è stati anche studenti. Il sistema attuale, per fare un altro esempio, richiede che per la costituzione di una nuova università (pubblica o privata che sia) in una regione è necessario il parere positivo delle altre università regionali: e questo ostacola la concorrenza tra istituzioni accademiche; rende estremamente difficile per un docente cambiare università o anche facoltà all’interno dello stesso ateneo: e questo favorisce la formazione di mafie universitarie; impedisce la possibilità di arricchire l’offerta didattica e scientifica delle piccole università chiamando ad insegnare per contratto docenti di altre università: e questo non consente agli studenti di venire a contatto con altre realtà ed esperienze scientifiche.
Questo sistema sta semplicemente producendo università di serie A, B e C e relative caste: chiuse, autoreferenziali e dedite ad una ‘politica universitaria’ fatta di inconcludenti (dal punto di vista scientifico) riunioni dedicate all’edilizia e alla programmazione didattica.
Perso il prestigio, ed in molti casi il denaro, a lenire le frustrazioni della casta dei baroni universitari non restano che i famigerati concorsi. Quelli che il pubblico dei non addetti considera ormai l’emblema della corruzione dell’istituzione. Per molti docenti si tratta dell’unica possibilità di finire sui giornali e di poter dare, purtroppo, una risposta alla domanda di familiari ed amici che si chiedono come mai uno in loco tanto famoso non appaia mai sul Corriere, Repubblica, Giornale, etc., non partecipi come esperto ad una qualsiasi trasmissione di approfondimento televisivo, non faccia parte di commissioni governative e regionali, né compaia in immagine accanto a qualche noto politico o a qualche soubrette.
Da sempre croce e delizia del mondo universitario i concorsi –o meglio, come si deve dire oggi, le ‘procedure di valutazione comparativa’– sono il campo in cui il ‘barone’ (che poco spesso è anche uno studioso noto ed affermato al di fuori del suo mondo o del suo settore scientifico-disciplinare) ha modo di esplicare al meglio le sue presunte doti partecipando alla cooptazione nell’élite o, tramite il suo presunto ‘prestigio’, patrocinando l’ingresso nella casta di allievi e talora anche di consanguinei e di congiunti a vario titolo. Il costo, molto, spesso, è appunto quello di finire sui giornali o, più raramente, in procura. Ma, ad essere, sinceri e cinici, per alcuni di noi si tratta comunque di una soddisfazione o di un modo come un altro di sentirsi vivi.
E che si sia ridotti a tanto la dice lunga sullo stato dell’università più di tante analisi ‘colte’ riguardanti la produttività scientifica e il prestigio nazionale ed internazionale delle sedi in cui si pubblica.
Per fortuna, accanto alla ‘casta’, maniera spontanea ed imprevista, si sta registrando anche il fenomeno dei docenti che credono e che praticano la ricerca nonostante tutto, e che tra mille difficoltà assolvono a quella che dovrebbe essere la funzione primaria dell’università: produrre e diffondere conoscenza. Esistono anche da noi delle isole felici dove l’obiettivo non è quello di racimolare potere accademico, bensì quello di confrontarsi con quanto avviene nel mondo della ricerca globalizzata. Ci sono giovani e meno giovani che ad onta della parca retribuzione credono nella ricerca, e che passano all’estero, coltivando e sviluppando progetti con altri atenei, il tempo lasciato libero dagli impegni didattici. Delle difficoltà che costoro sovente incontrano nelle loro sedi, nelle quali il ‘potere’ è magari nelle mani di colleghi i quali anziché alla ricerca si sono dedicati alla ‘politica universitaria’, è difficile dire. Infatti, poiché per la casta non hanno né vocazione, né interesse, vengono sovente emarginati dai giochi di potere e quindi dalla possibilità di creare una ‘scuola’. Non è facile dire se il loro esempio produrrà nel tempo qualcosa. Non resta che aspettare, sperando che la casta dei politici si renda finalmente conto che lo stato comatoso dell’università non è irreversibile, e che se ne può uscire non incrementando gli attuali livelli di burocratizzazione, di omologazione e di finte garanzie che non assicurano più nulla, ma semplicemente favorendo un’autonomia responsabile o, in altre parole, una reale competizione.
In autunno, dopo che il ministero avrà provveduto al riordino dei settori scientifico-disciplinari, del sistema di reclutamento e delle agenzie di valutazione, le università italiane inizieranno a riformulare i propri ordinamenti e la propria offerta didattica (classi, master, dottorati, etc.).
L’occasione, non può quindi essere sprecata perché una buona riforma del sistema universitario è importante per il paese almeno quanto una riforma del sistema pensionistico, del riordino di quello bancario, o di una legge elettorale.
E questo per una serie di motivi.
Il primo è che in un mondo in cui la ricaduta sociale ed economica delle scoperte scientifiche –che sovente hanno origine nei centri di ricerca universitari– sta assumendo un ritmo sempre più incalzante, l’università italiana è paralizzata da deficienze strutturali che producono didattica modesta, poca ricerca, e scarsa informazione occupazionale. Il tutto a costi molto alti rispetto ai risultati e in strutture logistiche sovente squallide.
Il secondo è che lo sviluppo delle nanotecnologie sta producendo inedite aggregazioni di saperi e di competenze che richiederanno duttilità: tutti son convinti che saranno il futuro ma nessuno è ovviamente in grado di descriverlo.
In altre parole il processo di trasformazione della conoscenza in risorse e in concrete possibilità di sviluppo si sta velocizzando a tal punto da travolgere tutto il resto. Compresa la casta dei docenti universitari.
Conoscenza, quindi, bisogna produrne. Costa farlo e costa non farlo. E chi si illude di poterne restarne fuori, o di essere in grado di risolvere la situazione con una logica diversa racconta semplicemente balle. In un mondo in cui formazione e ricerca non hanno più confini, i sistemi peggiori finiscono inevitabilmente in un angolo in cui ogni esercizio di frustrazione o di ribellismo sarà vano. Le caste non servono a nulla e non garantiscono niente.
Quella dell’università è dunque una questione grave che riguarda tutto il paese e tutte le fasce d’età. Anzitutto la casta dei docenti, la quale non dovrebbero approfittare della circostanza per fare l’ennesima riforma ‘gattopardesca’ (far finta di cambiare tutto affinché tutto resti come prima), e gli studenti, che possono riappropriarsi del proprio futuro soltanto se sapranno guardare con realismo a quel che succede nel resto del mondo.