Università. La protesta degli studenti contro se stessi
04 Settembre 2007
Come è abbondantemente noto e deprecato, la propensione degli italiani a spendere in educazione non è marcata. In tutti i paesi “civili” la preoccupazione maggiore dei genitori è dare ai figli qualcosa che possa essere usato autonomamente dagli stessi e che costituisce un patrimonio di conoscenze che può certo deperire ma che è anche facilmente ed economicamente trasportabile in località dove viene più apprezzato. Qualcosa che si sa costa ma che comunque rende.
In Italia le cose vanno un po’ diversamente. Si pensa che un appartamento possa rappresentare un’eredità migliore di una buona laurea e che comunque più che di “educazione” bisogna fornire la prole di un “titolo di studio”. Possibilmente conseguito a buon prezzo. E il fatto che sia pure in forme (come vedremo) contorte anche da noi sta diventando evidente che l’acquisizione di conoscenza costa più dell’acquisizione di un titolo di studio, suscita disappunto.
In questo periodo le proteste degli aspiranti studenti universitari e dei relativi genitori che trovano scandaloso dover spendere 300 euro per l’acquisto di libri di testo dopo aver, magari, speso quotidianamente la stessa cifra per cenare in vacanza, per sentire un concerto o per acquistare un paio di scarpe alla moda, trova accondiscendenti echi nei giornali. E senza dire, ancora una volta, di quanto vien speso per una ricarica di telefonino.
Che i libri di testo non siano propriamente economici è un dato di fatto. Tuttavia quel che maggiormente colpisce ed incide è il fatto che vengono sostituiti troppo spesso ed aggiornati con particolari certo utili ma che ne dilatano la mole in maniera sproporzionata – lo si scopre poi quando ci si presenta all’università – alla reale capacità di tanti studenti di immagazzinare anche soltanto una parte delle nozioni presentate.
Più che battersi contro il mulino a vento del “caro testi”, ed introdurre calmieri che non servono a nulla, sarebbe semplicemente il caso di usare il vecchio ed economico buon senso e pensare sia a libri più sintetici, sia a mantenerli in uso per più anni.
Ma il buon senso, come è ugualmente noto, è scomparso da un bel po’ dalla nostra scuola. Forse da quando essa è diventata il campo di ricerca di esperti in didattica e di pedagoghi ai quali però, è il caso di sottolinearlo, gli studenti ed i genitori che ora protestano devono tanto il deprecato caro libri, quanto il lassismo che consente indici di promozione tanto elevati. Un lassismo che ha molte cause, ed innumerevoli effetti devastanti, ma che ci piace pensare anche come il frutto di un residuo di buon senso rimasto nei docenti che si rendono conto del fatto che non possono pretendere che gli studenti sappiano e ricordino tutto quanto contenuto nei libri che loro stessi adottano in una fregola di novismo culturale e pedagogico. O più semplicemente di conformismo.
Dunque, per tornare al tema, la vera notizia sarebbe dovuta essere che in Italia c’è ancora qualcuno che pensa che l’educazione debba essere gratis e che il suo costo debba comunque essere indipendente dalla qualità.
Il caso eclatante è stato quello delle lamentele per il costo dei volumi che solerti ed avvertite case editrici producono per “preparare” gli studenti a sostenere i tests d’ammissione ad università, facoltà e corsi di laurea. La presenza e la diffusione di questi prodotti editoriali sono il chiaro segnale del fallimento della scuola media. Del fatto che tutta quella ridondanza di scienza e di informazioni di cui abbiamo parlato precedentemente serve a ben poco, che gran parte, in genere, viene dimenticata dopo la maturità, e che per essere praticamente fruibile per un banale concorso deve essere ridotta in pillole. I tests di ammissione sono infatti prevalentemente quiz a risposta multipla che nessuno studente avrebbe difficoltà a superare se soltanto avesse immagazzinato la metà delle nozioni per le quali ha conseguito l’agognata maturità.
I docenti che li preparano, o i famigerati esperti ministeriali per quanto riguarda quelli a carattere nazionale, devono tenere infatti conto dei programmi già svolti dai candidati nelle superiori ed aggiungere, in alcuni casi, domande di cultura generale o di carattere diverso che dovrebbero servire a capire qualcosa di più sul candidato.%3C/p>
Dunque, per ripeterlo chiaramente, se i candidati avessero fatto una buona scuola media superiore, a meno di non scegliere una facoltà molto diversa dal loro procedente curriculum (ad esempio uno studente fornito di maturità artistica che vuole concorrere a medicina o ad un numero chiuso di filosofia –tanto per fare due esempi), dei testi di preparazione non dovrebbero avere proprio nessun bisogno.
La loro diffusione ed il loro costo sono quindi tanto la prova del fallimento del nostro sistema scolastico, quanto la riprova che l’educazione costa. E che per tutti arriva il momento in cui occorre acquisirne.
Tutti questi difetti del sistema scolastico ed editoriale non devono comunque indurre minimamente a pensare che il numero chiuso per l’accesso all’università sia inutile, perverso, fonte di abusi e corruzioni, etc. È vero che in alcuni casi assicurano di fare il primo gradino nell’accesso a corporazioni chiuse per legge e a professioni remunerative il cui costo di formazione è molto alto per lo stato (pare, anche 30.000 euro annui per studente di fronte a tasse che, nelle università pubbliche, per i redditi più elevati non superano i 2.000 euro anni). Ma è anche vero che senza i test d’accesso ed il relativo numero chiuso le università sarebbero ancor meno in grado di oggi di fornire strutture logistiche e didattiche adeguate e che se ciò avvenisse nelle sedi ritenute migliori si iscriverebbero tanti studenti che renderebbero ben presto inadeguate le strutture facendo perdere prestigio alla sede. E non bisogna neanche dimenticare che gli studenti che si sottopongono ad un test d’ammissione sono comunque più motivati, e quindi preparati, di quelli che si iscrivono alle facoltà o classi di ripiego o, per essere indulgenti, di riflessione.
Certamente rimangono dei difetti. I concorsi di ammissione a carattere nazionale, ad esempio quelli alla facoltà di medicina, si svolgono nello stesso giorno in tutta Italia e spesso capita che il voto con cui non si è ammessi nella sedi ritenute migliori (ai quali è ovvio si presentano gli studenti migliori o più motivati) sia più alta di quella che consentirebbe una dignitosa ammissione in facoltà meno ambite. Si tratta comunque di problemi che in altri sistemi universitari sono stati risolti da decenni e che anche da noi potrebbero essere risolti attribuendo maggiore autonomia alle università (ciò che potrebbe anche, in un sistema di accesso per concorso, indurle a mantenere o ad accrescere il proprio prestigio) e con un sistema di differenziazione delle date di svolgimento dei concorsi, dando quindi agli studenti la possibilità di presentarsi anche in sedi meno ambite.
Tutto questo per dire, in buona sostanza, che il problema non è certamente quello del caro libro, ma che questo è il frutto perverso di un sistema scolastico che non funziona e che sarebbe inutile cercare di curare con calmieri.