Università, un incontro pubblico per definire programmi ed obiettivi
02 Aprile 2008
Quello di
Quagliariello è un grido d’allarme che non può cadere nel vuoto. Anche perché,
come sottolinea, al termine della devastante esperienza “Mussi-Modica”, o forse
proprio a cagione di questa, alcune non isolate componenti dell’Università
italiana hanno percepito che più in basso di così non era il caso di scendere
senza reagire. La resistenza passiva non serve più di fronte alla gravità della
situazione.
La
decisione, quanto si vuole controversa e discutibile, di 19 atenei che forse in
forma non chiara ed esplicita hanno chiesto di essere valutati ed anche
finanziati secondo criteri diversi da quelli adottati finora, mostra anzitutto
che esiste un discreto gruppo di università e di relativi rettori che avverte
come l’attuale degrado possa travolgere tutto e tutti, e che pensa di avere, o
di attivare, le risorse –culturali prima che finanziarie– per poter essere
valutati secondo criteri vicini ai parametri internazionali. Criteri se si
vuole da precisare; ma il segnale è forte ed inequivocabile.
Nessuno di
quei rettori lo vorrà forse ammettere, ma è ora diventato chiaro che il numero
di quanti hanno da sempre sostenuto che la mancanza di concorrenza deprime e
soffoca il mondo dell’università trascinandolo in un costoso burocraticismo,
non è più esiguo come fino a pochi anni fa.
Per chi
crede nell’’astuzia della ragione’, nella ‘mano invisibile’, ed in simili
metafore, Mussi e Modica vanno ringraziati per aver messo in evidenza tutti i
limiti della tradizionale politica universitaria italiana. Ed ora non resta che
constatare che quella strada fallimentare si è definitivamente ed
ignominiosamente chiusa. Lasciando macerie dalle quali non sarà facile venir
fuori.
Non è un
caso che in questa campagna elettorale di università si sia parlato poco o
nulla. Credo che ciò sia avvenuto per il fatto che tutti i politici sono
atterriti dalla consapevolezza delle difficoltà che dovrà incontrare qualsiasi
futuro ministro. E la prima difficoltà non sarà quella di reperire fondi o di
avviare i concorsi (patetica fissazione dei tanti accademici che pensano che
tutto possa risolversi con più soldi e più concorsi), ma quella di restituire
un clima di credibilità all’istituzione e di fiducia a quanti, docenti,
ricercatori e studenti, vi operano.
In questi
decenni, inutile nasconderselo, si è sfilacciato un po’ tutto. Non sono
assolutamente mancate le oasi, forse son pure cresciute, ma questa crescita non
è riuscita ad innescare un meccanismo di sana concorrenza e di emulazione. La
burocratizzazione delle università, le spese per il personale, l’esiguità dei
finanziamenti privati, hanno soffocato quasi tutti. Forse nessuno ha calcolato
quanto del tempo da dedicare alla ricerca sia, in realtà, dedicato alla loro
illustrazione nei vari organi e a frustranti adempimenti amministrativi. Troppe
università sono bloccate da logiche di potere che non si riesce ad identificare
ma che trovano alimento dalla burocratizzazione dell’insegnamento e della
ricerca, nonché dalla triste consapevolezza che al generale fallimento del
cosiddetto 3+2 è difficile trovare sbocchi. Soprattutto se il tempo e le idee a
disposizione difettano.
La percezione della mancanza di
una via d’uscita: perché quasi nessuno ha mai pensato che i cervellotici
provvedimenti “Mussi-Modica” potessero essere una soluzione, ha così prodotto
delusione e disaffezione verso un qualcosa che prima di una professione o di
una carriera era intesa come una scelta di vita.
Certamente non tutto è colpa di
Mussi e dei precedenti ministri. I professore hanno abbondantemente aggiunto riuscendo
a peggiorare tutto o quasi.
Di fatto, comunque, il risultato
è che ai ‘precari’ che invecchiano senza intravedere sbocchi, bisogna così
aggiungere gli ‘stabilizzati’ che inacidiscono tra sterili riunioni e strategie
di politica accademica. La nostra università rischia così di diventare un
ospizio per persone anziane che pateticamente si raccontano i presunti successi
del passato e che si avviliscono quando si accorgono che di essi agli studenti
non importa pressoché nulla.
Ora però bisogna ripartire. Al
più presto e con le idee chiare.
Ragionevolmente l’obiettivo
dell’abolizione legale del titolo di studio non può essere realizzato in tempi
brevi. Ma qualcosa che vada in quella direzione, e che non crei problemi nel
momento in cui la questione sarà essere affrontata e risolta, bisogna pur fare.
Se ne può discutere, ma bisogna
arrivare presto ad una decisione.
È ovvio che quando si pone mano
ad una riforma così impegnativa si deve pur far conto che qualcosa non andrà
per il verso desiderato e che realisticamente sarà necessario fare degli
aggiustamenti in corso d’opera. All’università, luogo popolato da tanti
colleghi che lavorano per decenni all’opera perfetta per forma, contenuto e
letteratura primaria e secondaria, tutti, si sa, si sentono dei geni, e di
conseguenza tutti hanno in mente la loro riforma perfetta. Ma più si aspetta e
più essa finirà per seguire la sorta del fantomatico capolavoro di cui prima:
non uscirà mai!
Rimbocchiamoci quindi le maniche.
Le proposte di Quagliariello, il suo decalogo, mi sembrano un’ottima base da
cui partire. E poiché sono anch’io un professore universitario, e ormai anche
di una certa età (purtroppo nella media), contengo il vizio professionale
facendo una sola aggiunta che può
essere sinteticamente riassunta così: “aboliamo i nulla hosta”.
Perché?
Primo perché son ridicoli. In
alcune università, spero non in tutte, per fare un corso ad un master promosso
da una facoltà diversa da quella di appartenenza ma del medesimo ateneo,
bisogna chiedere il famigerato nulla
hosta alla facoltà di appartenenza.
Se non vi sembra ridicolo
passiamo a cose serie.
Secondo, uno dei peggiori difetti
della nostra università è la legislazione che rende quasi impossibile la
mobilità dei docenti (oltre che degli studenti). Ciò che, non solo crea mafie e
vittime di mafia in ogni facoltà ed università, ma, ed è anche peggio,
costringe gli studenti a sorbirsi per decenni lo stesso professore. Abolendo il
nulla hosta, una volta assolti gli
obblighi concordati, un docente potrebbe benissimo recarsi ad insegnare in
altre sedi con indubbi vantaggi per la propria formazione ed esperienza, e
soprattutto per gli studenti che avrebbero così la possibilità di sentire voci
autorevoli e comunque nuove.
Chiudo con una proposta. Son
rimasto molto colpito dal fatto che nessuna delle tre università toscane abbia
aderito al ‘manifesto dei 19’. Colpito perché non pensavo che le università di
una regione in cui oltretutto hanno sede molte delle sedicenti “scuole di
eccellenza” italiane non si sentissero di poter fare un salto qualitativo. Ma
anche perché le dichiarazioni del mio Rettore Marco Pasquali mi hanno indotto a
volerci vedere più chiaro in quella dichiarazione di intenti il cui punto
debole mi sembra l’elaborazione di criteri per valutare la ricerca ‘umanistica’.
Ed è per questo che lancio la
proposta di incontrarci a Pisa, magari il prossimo 9 aprile, per discutere del
‘decalogo di Quagliariello’ con tutti coloro che avvertono la necessitò di
risalire la china e di proporre al prossimo governo una lista minima di cosa da
fare immediatamente.
Raimondo Cubeddu è professore dell’Università di Pisa.