Uno, due, troppi Sessantotto

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Uno, due, troppi Sessantotto

25 Ottobre 2008

Malgrado quel che si dice in giro, resto convinta che il ’68 non sia stato quel dramma gravido di conseguenze dal quale sarebbero derivati terrorismo e degrado della scuola, maleducazione e sfascio della famiglia. Credo che si esageri, da una parte e dall’altra: chi lo denigra ne accentua i difetti e ne fa il progenitore dei peggiori mali attuali (crisi economica a parte); chi lo esalta non ne vede i limiti fin troppo evidenti e il ridicolo di alcune richieste, tesi, idee. A me  pare che, più modestamente, il ’68 sia stato un momento importante in quello svecchiamento dei rapporti tra genitori e figli, tra mariti e mogli, tra studenti e insegnanti, che può essere giudicato come un bene inevitabile o come un male che ci si poteva risparmiare. Favorevoli e contrari devono riconoscere che quel passaggio fu accelerato, abbreviato, reso eclatante e convulso, dal movimento del ‘68. Resta che rappresentò una scossa nella  modernizzazione dei comportamenti soprattutto, ma non solo, dei più giovani: da quella scossa non si è più tornati indietro.

Questa mia considerazione dipende da un giudizio storico sul movimento del ’68: in quell’episodio durato molti anni, ritengo tutto sommato secondarie le ideologie (varie, come va dimostrando una ricerca storica sempre più precisa e sulla quale torneremo prossimamente): le ideologie rocciose e sanguinarie professate ed esibite allora.

Sarebbe opportuno iniziare a distinguere ciò che è rimasto di quel chiassoso e talvolta truce movimento e ciò che è caduto inesorabilmente, dal momento che sono trascorsi ormai quarant’anni da allora. E’ proprio a questo fine (giudicare ciò che è vivo e ciò che è morto del ’68) che risulta utile questa distinzione fra la parte ideologico-politica e la parte antropologica, per così dire, di quel fenomeno. C’è una grande differenza, e c’era anche all’epoca dei fatti, fra i temi egualitari e partecipativi messi in campo, i comunismi invocati a esempi da seguire, le simpatie per la Cina, Cuba, l’Unione Sovietica, il Terzo Mondo, da un lato, e nuovi stili di vita dall’altro: nuovi stili grazie ai quali – va ricordato a chi è più giovane – le ragazze riuscirono ad andare a scuola in pantaloni, cosa che fino a quel momento era proibita dai Presidi e dal costume. Fra questi due lati delle rivendicazioni e conquiste sessantottesche, mi pare che quello più longevo e dai frutti più abbondanti sia stato il secondo: si sono introdotti in quel momento modi inediti (o che sembravano inediti) di socializzare, di vestire (le minigonne, l’eschimo, i jeans), di comportarsi, di vivere la sessualità, di pensare al proprio futuro, di guardare al lavoro.  

Quando si decide di fare un bilancio del ’68, si dovrebbe precisare a quale dei due lati ci si riferisce. Ognuno può pensarla come vuole: l’importante è non fare confusione.

Bisognerebbe anche, volgendosi a quegli anni, ricordare che nel ’68 c’erano molte cose insieme, come accade spesso negli eventi storici: correnti diverse, personaggi assai lontani gli uni dagli altri. C’erano gli operaisti e c’era Lotta Continua che non era operaista affatto, c’erano i fedeli all’ortodossia marxista e c’erano già da subito gli eterodossi, c’erano i sovietici e gli americani, c’erano i soldatini della rivoluzione e c’erano i liberali.

Detto tutto questo, dobbiamo anche chiederci se era inevitabile che la modernizzazione dei comportamenti passasse per contestazioni così politicizzate, se la formalità della famiglia e della scuola dovesse per forza essere abbattuta con tanto clamore. Gli studiosi delle rivoluzioni (Tocqueville in testa) ci insegnano che una rivoluzione scoppia quando il cambiamento (che spesso si è già realizzato) non trova una sistemazione istituzionale. Precisato che il ’68 non fu una rivoluzione, adottò i tratti della contestazione di piazza, dello sciopero, dell’assemblea, dell’occupazione delle scuole, e concentrò nel tempo di pochi mesi cambiamenti che diversamente avrebbero occupato un tempo molto più esteso. Anche questo è tipico delle rivoluzioni: la cercata rottura con il passato, l’evidenza della trasformazione, qualche vittoria simbolica. Capelli lunghi e trascuratezza nel vestire rappresentarono il segno tangibile di una affermazione che doveva essere riconosciuta. Forse la modernizzazione della quale parliamo si sarebbe realizzata comunque anche senza barricate, oppure no. Possiamo dire poco di ciò che non è stato. Di fatto, possiamo solo prendere atto di quello che è accaduto, e riflettervi sopra.

Il libro di Anna Bravo compie la distinzione fra i due aspetti del ’68: quello politico e quello antropologico. Si diffonde sul secondo mostrandone gli effetti di lungo periodo soprattutto, a suo parere, per quanto riguarda il femminismo. Non sarei esattamente della stessa opinione: se è vero che la discussione delle donne sulla loro condizione di inferiorità conosce in quegli anni una diffusione notevole, i salti che l’hanno fatta crescere si sono verificati in autonomia da quell’evento: l’emancipazionismo prima e poi il pensiero della differenza hanno poco o niente a che vedere con il movimento del ’68, alquanto maschilista come suo tratto generale. Ma sono d’accordo che i mutamenti nel costume che il ’68 ha tentato, introdotto, sottolineato, si sono rivelati tratti duraturi della nostra epoca: la sessualità separata dalla procreazione, la concezione “a tempo” dell’unione matrimoniale, la scelta di (e se) diventare madri al posto della visione della maternità come un destino naturale, la democrazia al posto della gerarchia in tutti i rapporti, anche quelli con persone di maggiore età, maggiore esperienza, maggiore responsabilità, l’informalità di abiti e comportamenti come scelta di vita, il lavoro come esperienza che deve essere soddisfacente e non occupare tutto lo spazio disponibile in una esistenza.

Anna Bravo analizza con finezza e con gusto del dettaglio significativo le figure, i temi di allora, scegliendo sempre di riservare a quelli ideologici e politici uno spazio molto esiguo. Va detto però che, all’epoca, lo spazio della discussione ideologico-politica era quello prevalente, quello che invadeva ogni altro spazio, ogni argomento, ogni tema. Se si rileggono i documenti di allora, vi si ritrova una grande varietà e ricchezza di argomenti, ma in cima  a tutti la preoccupazione di essere politicamente a posto, di giustificare in termini politici la propria argomentazione. Se non lo si faceva si era tacciati di essere apolitici, “borghesi”. Se è giusto osservare che il frutto del ’68 è stato una modernizzazione dei costumi, è invece parziale riportare solo a questo il ’68 che si verificò nel 1968 e dintorni. Ogni conquista nel modo di vivere era appesantita da un armamentario ideologico marxista-leninista e a volte maoista necessario, ingombrante e del quale – quello sì! – ci si è dovuti liberare strada facendo. Di questo armamentario resta solo una traccia molto lieve nel testo di Anna Bravo.

Ma alla fine il volume di Anna Bravo ha una caratteristica sopra tutte che colpisce il lettore: parla del ’68 come se fosse accaduto l’altro ieri, anzi, come se fosse in corso in questo momento. I punti di vista, le posizioni di questo e quello, sono riportati con  estrema vivacità; di ogni scelta ci si chiede se poteva essere fatta diversamente, se il movimento ebbe ragione o ebbe torto nel comportarsi come si comportò. Va bene che chi scrive partecipi all’argomento di cui parla, ma un po’ di distacco forse a quarant’anni di distanza non guasterebbe: diciamo di più, forse sarebbe necessario. L’autrice sceglie il primo corno dell’alternativa mostrando di aver seguito la discussione storiografica su quei temi nel tempo che li separa da noi. Così facendo, si rivolge esclusivamente a coloro che la pensano come lei, anzi, solo a coloro che erano presenti come lei agli avvenimenti di cui parla. E’ per questo che il libro di Anna Bravo è un libro di ricordo e di nostalgia più che di discussione critica e di storia.

Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp.