Un’occasione storica per l’Italia di mezzo

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Un’occasione storica per l’Italia di mezzo

28 Giugno 2020

Oggi terminerò il “Cammino di San Benedetto”: 305 chilometri da Norcia, dove nacque il Santo, a Montecassino, dove morì, passando per Vicovaro e Subiaco, dove dimorò per circa trent’anni. Con tre amici ne ho percorso a piedi oltre la metà, attraversando monti e borghi, visitando grotte, chiese e abbazie, ma anche approfittando dell’occasione per confrontarmi con gli amministratori e gli operatori di territori che spesso, a dispetto del loro straniante fascino, vivono il sommarsi di tre difficoltà: quella delle aree interne appenniniche, quella del post-sisma e ora quella che si è abbattuta come un ciclone sull’intera economia nazionale. 

In ogni caso, sono stati dieci giorni d’immersione totale in luoghi fra i più belli d’Italia: ce l’eravamo ripromessi durante il lockdown come buon auspicio per la ripartenza, e visto quanto ce n’è bisogno abbiamo voluto onorare il proposito.

Avremo tempo e modo per parlare diffusamente di questa esperienza e di un Cammino che, se saprà superare piccole e meschine rivalità localistiche ed ergersi al livello della storia che ripropone e della spiritualità che trasmette a chi lo affronta, avrà presto tutte le carte in regola per proporsi come “il Santiago italiano”.

Oggi vorrei invece affrontare un tema al quale dedico parte importante del mio impegno politico e che questo cammino mi ha riproposto con inedita forza: quello delle aree interne del Paese e, in particolare, dei territori appenninici che coincidono grosso modo con il cratere del terremoto del 2016.

In queste zone, come detto, vi sono borghi tra i più belli d’Italia; vi è custodita una parte importante dell’anima della nazione, qui affondano alcune delle radici più profonde della cristianità. Tutto questo patrimonio rischia di andare dissipato, di spegnersi, di morire. Ogni giorno questi territori si spopolano, gli indici demografici si abbassano, l’abbandono guadagna spazi, consegnando le aree interne alla desertificazione e creando disagi sociali anche sulle coste, che non sono in grado di assorbire l’urto di quella che si va configurando come una vera e propria migrazione. 

Certo, non si tratta di una storia nuova ma di una tendenza che ha alle spalle qualche centinaio d’anni. Negli ultimi tempi, tuttavia, il fenomeno ha avuto una incredibile accelerazione e in questo il terremoto (ivi compresa la gestione successiva) ha purtroppo fatto la sua parte. In qualsiasi Paese civile quel che è accaduto dopo il sisma del 2016-2017 sarebbe considerato uno scandalo. In Italia, quando c’era da ammazzare un governo di centrodestra arrivarono le carriole; se però le macerie sono di altri, questi possono restare dove sono indisturbati e magari anche pontificare.

Oggi, però, per le zone interne si presenta un’occasione storica. La necessità di ripartire e l’incombenza di un nuovo debito di circa 100 miliardi impongono di avere una visione. Tra i nodi di fondo da sciogliere vi è quello di decidere se vogliamo un Paese popolato oltre misura in alcune megalopoli e sulle coste, con spazi interni che si trasformano sempre più nel regno esclusivo di camminatori e motociclisti, oppure una distribuzione demografica più organica, nella quale alcune delle città e dei borghi più belli d’Italia riprendano vigore. Per questo è necessario che i territori dell’entroterra appenninico si ripopolino. In tutti i paesi nei quali sono passato, la richiesta dei Sindaci è stata una sola: creare le condizioni perché si possa contare su un numero di abitanti che costituisca una massa critica sufficiente affinché il comune possa essere governato, senza limitarsi a gestire una decadenza altrimenti ineluttabile.

Per far questo si pongono alcune priorità, che devono diventare obiettivi nazionali. 

Uno: governare il fenomeno dello smart working, che da tabù ora sembra essere diventato quasi una nuova ideologia. Tra il pendolarismo continuato e il restare a casa a oltranza contro ogni razionalità sono immaginabili, in alcune situazioni, vie di mezzo di mero buon senso. Avere ad esempio la possibilità di lavorare alcuni giorni da casa, e recarsi nella vicina città solo alcune volte a settimana, può rendere molto attrattiva la residenza nei piccoli comuni dove la qualità di vita è elevata e i costi sono inferiori alla media, e aiutare la lotta allo spopolamento. 

Due: cablare l’intero Paese. Perché il sistema di lavoro a presenza alternata, ovviamente per i mestieri per cui è possibile, sia quantomeno immaginabile – e come vedremo non solo a questo fine -, è necessario disporre di un collegamento internet rapido e non intermittente. A questo proposito bisogna dire con chiarezza che il 5G è una opportunità. Ciò a cui bisogna porre estrema attenzione è la sua realizzazione, affinché oltre a prestare le dovute garanzie gli attori e i partner siano tali da non mettere nemmeno lontanamente in discussione equilibri geopolitici, sicurezza informatica e sovranità nazionale. 

Tre: sempre sfruttando le potenzialità della Rete, affinché la tecnologia sia di supporto alla possibilità di fare impresa in ogni angolo del Paese, va immaginata una grande piattaforma nazionale per la valorizzazione dei prodotti agroalimentari, degli allevamenti e delle colture delle aree interne. 

Quattro: fare di queste zone il fiore all’occhiello di un grande piano nazionale del turismo, sfruttando le loro caratteristiche di salubrità e ariosità che ne fanno la meta ideale per il post-pandemia. 

Cinque: un piano nazionale per la sanità nelle zone interne, che per le loro caratteristiche orografiche e infrastrutturali devono poter contare su un sistema contemperato di grandi strutture di eccellenza (con mezzi in grado di renderle rapidamente raggiungibili) e una rete di prossimità capillare ed efficace. 

Sei: un programma straordinario per la montagna appenninica. Si tratta di un tesoro ancora troppo sconosciuto che altrove sarebbe già diventato una risorsa in grado di garantire alle popolazioni locali una vita dignitosa per generazioni. Ci sono tutte le potenzialità, è il momento di metterle in atto. 

Ma, come premesso, per realizzare tutto questo serve una visione. Che oggi latita, al punto da aver indotto una persona autorevole e sempre istituzionalmente composta come Giuseppe De Rita, profondo conoscitore delle aree di cui stiamo parlando, a muovere in queste settimane critiche molto incisive sulla gestione di questa fase difficilissima da parte della classe dirigente attualmente al governo del Paese, priva di uno sguardo all’altezza dei tempi. De Rita, teorico della società orizzontale fondata sulla rete dei corpi intermedi, ha compreso da tempo che per ricostruire le comunità, per salvare l’entroterra appenninico e in particolare la sua montagna, c’è bisogno di una verticalizzazione dei processi e degli scambi che consenta di sfrondare le intermediazioni, saltare passaggi usufruendo delle potenzialità tecnologiche, e rendere anche economicamente conveniente ciò che in un mercato globale spesso appiattito e omologato rischierebbe di venire soffocato. 

Questo è il momento giusto. La crisi che si è abbattuta su di noi, la riscoperta di dimensioni fin qui troppo spesso marginalizzate da circuiti stereotipati, ha dimostrato che parlare di aree interne oggi non è una opzione passatista, ma è una strategia che guarda al futuro. Cesare Pavese, ne “La luna e i falò”, scrisse che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Ecco, guardando i borghi dell’Appennino, forse è il caso di riprendere e aggiornare le sue parole. Un paese ci vuole, non fosse che per il fatto che oggi è necessario tornarci.