Usa-Cina: l’alba della nuova guerra fredda

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Usa-Cina: l’alba della nuova guerra fredda

Usa-Cina: l’alba della nuova guerra fredda

06 Maggio 2020

Le accuse contro il regime cinese lanciate il 3 maggio in un’intervista alla Abc dal Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo, secondo cui “ci sono numerose prove sul fatto che il coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan”, e “la Cina ha fatto tutto quello che ha potuto per tenere il mondo all’oscuro sul coronavirus: classica disinformazione comunista”, segnano un deciso salto di qualità nel confronto a distanza tra l’amministrazione Trump e il gigante asiatico in corso da molte settimane sul tema della pandemia.

Con quelle affermazioni, supportate dal suo presidente, Pompeo pone sul terreno per la prima volta la possibilità di una procedura contro la Cina presso le istituzioni e i tribunali internazionali per le sue responsabilità nella diffusione mondiale del virus. E, contemporaneamente, introduce nella polemica a tale riguardo per la prima volta un esplicito elemento ideologico, richiamando la radice comunista e la natura autoritaria del governo cinese.

A questo attacco diretto si aggiunge il fatto che il ministro degli esteri statunitense, a precisa domanda, risponde di “non avere elementi per dubitare” delle conclusioni a cui sono giunti l’Oms e le strutture di intelligence del suo paese riguardo all’origine naturale dell’epidemia, ma di non poter dire se la diffusione del virus sia stata accidentale, perché “il partito comunista cinese si è rifiutato di collaborare con gli esperti sanitari mondiali”.

Tradotto dal linguaggio della politica e della propaganda, ciò significa che Pompeo coltiva in realtà almeno il dubbio che il virus sia nato non soltanto nel laboratorio di Wuhan, ma da una manipolazione artificiale, non dimostrata ma plausibile. E che, addirittura, non si possa escludere a priori che la sua diffusione sia stata frutto di una scelta volontaria, magari non del governo cinese ma di qualche scienziato o tecnico del laboratorio stesso.

Si tratta, come è facile capire, di argomentazioni che tendono a mettere la Cina in un angolo, a tenerla sotto la lente d’ingrandimento e la pressione della comunità internazionale, in una posizione di svantaggio strategico. Una linea che naturalmente ha già provocato, e continuerà a provocare, risposte stizzite e indignate da parte di Pechino, che definisce “folli” le accuse americane, in quanto la Cina è stata la prima vittima dell’infezione, e ritorce le accuse contro Trump, colpevole ad avviso dei cinesi di eccessiva sottovalutazione del pericolo e di una politica ondivaga nel contrastarlo.

In ogni caso, il linguaggio dell’amministrazione statunitense porta la contesa ormai apertamente in un campo a partire dal quale si apre la strada ad una dialettica tra sistemi contrapposti ed incompatibili che ricorda per molti versi quella della guerra fredda tra Stati Uniti e Urss.

La crisi pandemica globale potrebbe dunque davvero avere come effetto – oltre la fine della “globalizzazione facile” oggettivamente incentrata sul modello economico cinese – anche l’accelerazione improvvisa della tendenza all’evoluzione del multipolarismo globale in un bipolarismo tra Washington e Pechino, fino a configurarlo come una rinnovata divisione del mondo in zone d’influenza non comunicanti? Si potrebbe passare in pochi mesi dalla globalizzazione caotica dell’ultimo ventennio ad un ritorno alla logica di due “globalizzazioni parallele” come quelle che nel secondo dopoguerra si svilupparono nell’Occidente capitalista liberaldemocratico e nell’Oriente collettivista?

In questo momento è ancora difficile dirlo. Molti fattori vanno considerati, e molte variabili possono influire sull’evoluzione del confronto nel prossimo futuro. Il primo elemento è, naturalmente, quanto l’impatto sanitario, ma in seguito soprattutto economico, dell’infezione da Covid-19 influirà sulla politica interna degli Stati Uniti, ed in particolare naturalmente sulle prossime elezioni presidenziali.

Da tale punto di vista, l’accelerazione di Trump nella polemica anticinese si può anche interpretare come una manovra preventiva per scaricarsi il più possibile dalle responsabilità di una possibile perdurante recessione post-pandemica, e nello stesso tempo di presentarsi agli elettori con una posizione forte, polarizzante, cioè quella del difensore cegli interessi nazionali contro un nemico esterno e riconoscibile: uno issue che sovrasti le preoccupazioni per l’economia, le incanali, le renda comprensibili in una logica più ampia. Tanto più che ad oggi Trump non può ancora essere sicuro che nel prossimo autunno si troverà davanti, come contendente, Joe Biden, il quale appare sempre più debole e screditato e potrebbe anche essere sostituito in corsa con un altro candidato in grado di unificare la base democratica nel segno della rabbia per la grave crisi e l’accusa al presidente in carica di essere il principale responsabile di essa.

Per cercare di mettersi al riparo da eventuali, e fino a poco tempo fa imprevedibili, difficoltà nell’ottenimento del suo secondo mandato quest’ultimo deve portare al più presto possibile la discussione politica fuori dalla gestione del problema sanitario in quanto tale, imperniandola sulla ripartenza della società e la ripresa economica. Ma se ciò risultasse impossibile per un protrarsi o un aggravarsi dei danni epidemici, egli deve avere pronto un piano B: la radicalizzazione del confronto con la Cina, attraverso la raffigurazione di quest’ultima come un interlocutore inaffidabile, un potere oscuro ed ostile che ha aggredito gli Stati Uniti e quello che al tempo della guerra fredda si chiamava “il mondo libero” attraverso l’arma più subdola – anche se (forse!) involontaria – un virus creato o manipolato in laboratorio. Cercando, nel contempo, di utilizzare quella radicalizzazione per esercitare una pressione forte verso gli alleati europei, troppe volte negli ultimi tempi tentati di “scarrellare” verso rapporti troppo stretti con Pechino ed eccessive concessioni nei suoi confronti, ed utilizzando l’irritazione generata in loro dai ritardi e dalle bugie cinesi sull’epidemia per spingerli a fare fronte comune in azioni di denuncia e isolamento dell’antagonista in tutte le sedi internazionali possibili: tendenza già emersa nei pronunciamenti di molti governi del Vecchio Continente.

Se questo senario si concretizzasse, le prospettive di una rapida evoluzione dell’equilibrio di potenza mondiale verso una vera e propria nuova guerra fredda diventerebbero decisamente più realistiche.

Senza contare un’ulteriore incognita: quella della Russia di Putin. Che fino ad ora ha giocato un ruolo di terzo incomodo nel cresccente dualismo globale sino-americano. Ma che in queste settimane è stata colpita duramente anch’essa – a differenza di quanto sembrava precedentemente – dalla pandemia da Coronavirus.

Un forte impatto sociale ed economico dell’epidemia in quel paese potrebbe favorire un’oscillazione più marcatamente anticinese anche nella strategia di politica estera del Cremlino, che andrebbe in questo caso a convergere con quella di un Occidente nuovamente unito. Portando il regime cinese ad un grado di isolamento internazionale inedito negli ultimi decenni. Con conseguenze tutte da decifrare.