Usa e Ue uniti cercano una mediazione per porre fine al conflitto
14 Agosto 2008
Mentre si rincorrono le voci tra Tbilisi e Mosca di reciproche violazioni della fragile tregua, il quadro diplomatico del conflitto si arricchisce di novità e conferme.
La novità principale riguarda l’ingresso effettivo nella crisi degli Stati Uniti, che hanno fatto sentire la loro voce con le dichiarazioni del Segretario di Stato Rice e del Presidente Bush. I due, duri nei toni nei confronti di Mosca (Rice ha parlato della Russia «che si è cacciata in un buco», mentre Bush ha minacciato «un’esclusione russa dalle principali organizzazioni internazionali»), non lo sono sembrati fino al punto di voler rompere con il Cremlino. Non a caso Bush non ha voluto parlare di «scontro» pur ricordando che le relazioni Usa-Russia restano «complicate e complesse». Al momento oltre alle dichiarazioni, Washington ha promesso aiuti concreti alla popolazione della Georgia (il primo cargo militare è già giunto sul posto), l’annullamento delle manovre navali congiunte con Mosca, Londra e Parigi previste dal 15 al 22 agosto prossimo nelle acque del Mar del Giappone e la convocazione di una riunione straordinaria dei ministri degli esteri della Nato attesa per martedì prossimo, senza la presenza dell’osservatore russo.
Proprio il richiamo all’Alleanza atlantica rilancia il tema dei rapporti euro-atlantici così come emergono da questa prima fase diplomatica del conflitto caucasico. L’attivismo che l’Unione europea ha mostrato sin dalla prima ora ha ottenuto infatti una duplice conferma.
Da un lato il Segretario di Stato americano Rice ha dichiarato tutto il suo sostegno all’iniziativa della presidenza di turno dell’Unione e oggi in Francia incontrerà Sarkozy prima di volare a Tbilisi. Se nella guerra tra Georgia e Russia si può trovare un dato positivo questo è certamente costituito dalla sintonia nel blocco euro-atlantico. Si può discutere su quanto questo sia dovuto all’attuale situazione di debolezza dell’alleato americano, impegnato sul teatro iracheno ed afgano, con un Presidente uscente e una crisi economico-finanziaria di certo non superata. Ma non si può di certo negare che le due sponde dell’Atlantico abbiano in questa congiuntura parlato una sola lingua. Più che al ritorno di una logica tipica della fase di guerra fredda questa rinnovata sintonia è in gran parte attribuibile alla svolta diplomatica francese impressa alla politica europea dalla presidenza Sarkozy.
Ulteriore conferma è giunta poi dalla solidità interna della mediazione francese. La riunione dei 27 ministri degli esteri dell’Ue (l’assenza fisica del ministro Frattini meriterebbe forse qualche riflessione in più rispetto alle polemiche di facciata e riguarda direttamente la cronica assenza italiana di una politica estera minimamente condivisa) si è conclusa con un documento comune nel quale senza distinzioni tutti i Paesi membri si sono allineati sulle posizioni della mediazione condotta a Mosca e Tbilisi da Sarkozy. Questo sarebbe di per sé già un grande risultato, se si pensa alle “storiche rotture” dell’Ue sul conflitto iracheno, ma anche sull’indipendenza del Kosovo, soltanto per citare alcuni casi emblematici. Non solo l’Europa non si è spaccata sulla crisi georgiana, ma ha addirittura avanzato la proposta di dispiegamento di una missione di propri osservatori (da tramutare poi in forze di peacekeeping), ancora tutta da chiarire nella sostanza, ma comunque simbolo di una volontà politica rilevante, mai mostrata dall’Ue nel recente passato.
In questo quadro a tinte così chiare non mancano però le nubi.
La prima riguarda proprio gli Stati Uniti, che sono apparsi in evidente ritardo sul dossier georgiano e vi sono entrati soltanto dopo che l’iniziativa europea e gli insistenti richiami provenienti da Tbilisi non potevano più esimere Washington dal porre il suo peso nel delicato contenzioso internazionale. Anche dopo le parole di Rice e Bush il quadro non è nitido. Gli Usa sono pronti al confronto diplomatico aperto con Mosca? Possono permettersi di abbandonare la Georgia? In un provocatorio editoriale il «Wall Street Journal» ha punzecchiato Bush, il quale rischierebbe un finale di mandato debole, “alla Carter”. E ancora, in particolare riguardo alle relazioni Usa-Ue, il legame euro-atlantico è destinato a funzionare solo quando una delle due parti si trova in difficoltà e dunque l’altra è pronta a prestarle soccorso?
Per nulla scevra di ambiguità è anche la posizione europea. Dietro l’unanimità uscita dalla riunione di ieri a Bruxelles, che non si vuole certo sottostimare, numerose linee di frattura covano sotto la cenere. E non si tratta soltanto di ribadire le differenti percezioni della minaccia russa tra “vecchia” e “nuova” Europa, evidenziata dalla forte contrarietà espressa dai vertici polacchi, estoni, lettoni e lituani nei confronti della mediazione Sarkozy. Ma il riferimento è alle differenti sfumature nelle posizioni in campo tra i cosiddetti grandi dell’Ue. Se l’Italia ha continuato a predicare “equilibrio”, Londra si è detta “scioccata” dall’operato di Mosca, mentre la Germania ha ribadito la necessità di non lasciarsi andare a “prese di posizioni unilaterali”. È chiaro come la crisi in atto riporti in primissimo piano l’irrisolto rapporto tra Ue e Russia e di estrema attualità la crisi del partenariato a tutti gli effetti congelato dopo i fallimenti di Samara e l’accordo solo di massima raggiunto a Khanti-Mansiysk nel giugno scorso.
Più in generale la crisi in Georgia può costituire da un lato la vera e propria fine dell’illusione europea rispetto alla guerra all’interno dei propri confini o alla sua periferia più prossima. Con la risposta all’invasione georgiana dell’Ossezia del sud, Mosca ha lanciato un chiaro monito ai Paesi Ue: il Cremlino è pronto ad utilizzare lo strumento bellico per i propri fini politici. Qualsiasi riflessione europea rispetto al rapporto con Mosca non potrà prescindere da questo dato e non potrà limitarsi alle sole questioni energetiche. D’altra parte però la scommessa di Mosca, resterà da capire quanto calcolata, finisce per mettere in seria discussione il fronte filo-russo presente all’interno dell’Unione europea. Dopo la “guerra dei sei giorni” caucasica sarà molto più difficile sostenere a Bruxelles una linea morbida nei confronti di Mosca e il realismo nel rapportarsi al nuovo gigante russa forse prenderà sempre più il posto della soggezione e del timore reverenziale.
In definitiva, oltre alla drammatica situazione che si sta consumando sul terreno, questa improvvisa, ma per molti aspetti annunciata, crisi caucasica riattiva tutte le linee di frattura che, perlomeno dal biennio 1989-91, covano all’interno del triangolo Usa-Europa-Russia.