Va bene la democrazia, ma non trasformiamo l’Università in un votificio
23 Gennaio 2012
Molto si è detto e scritto negli ultimi anni a proposito della riforma universitaria che porta il nome dell’ex ministro Gelmini. Almeno inizialmente, speravo che le nuove norme servissero a rendere i nostri atenei più simili a quelli dei paesi anglosassoni. Meno burocrazia e, quando necessaria, almeno funzionante. Docenti che insegnano e fanno ricerca, senza perdere tempo in quella strana attività che da noi si definisce “politica accademica”. Studenti posti finalmente in grado di scegliere un corso di laurea in maniera oculata, perché informati in modo preciso circa le conseguenze future della loro scelta. Nulla di tutto questo è avvenuto. Al contrario, le strutture universitarie italiane sono ancor più peggiorate, e il processo di degrado sembra non avere fine.
Giovedì 19 gennaio, sfogliando il quotidiano genovese “Il Secolo XIX”, mi capita di notare un articolo (pag. 20) intitolato: “Si infiamma la campagna elettorale tra nomination e colpi bassi”. Probabilmente – mi sono detto – si tratta della campagna elettorale americana, con Obama che guarda abbastanza tranquillo la lotta al coltello tra i vari candidati del partito repubblicano USA per ottenere la nomination e poi sfidare il Presidente in carica. Mi aspetto quindi di trovare indicazioni circa l’esito della votazione in uno dei tanti stati americani nei quali la campagna è per l’appunto in corso.
Invece no. Subito dopo, infatti, leggo: “San Martino, medici alle primarie” e, più sotto: “Trenta primari e universitari in corsa per la direzione di sei Dipartimenti”. Insomma nessun caucus in gioco. Gingrich, Romney e Santorum non c’entrano, né risulta coinvolto il vecchio partito dell’elefante. Si tratta, assai più prosaicamente, di quelle che lo stesso quotidiano definisce “primarie della sanità”. Come se fosse la cosa più normale del mondo. Il Secolo XIX continua: “Facile prevedere che saranno altri giorni caldi perché ci saranno camici bianchi e baroni illustri che resteranno tagliati fuori dalle nomine e quindi dovranno prendere ordini da un loro collega”.
Qui si sta parlando di una Facoltà di Medicina, in particolare quella dell’Università di Genova. In queste strutture, non solo nel capoluogo ligure ma in tutta Italia, le “primarie” sono ulteriormente complicate dall’intreccio tra universitari e ospedalieri. Tuttavia la situazione non cambia poi molto se passiamo alle altre Facoltà, siano esse umanistiche o scientifiche. Anche in questi casi, infatti, le cosiddette “primarie” sono in corso o si stanno avviando, poiché la legge Gelmini impone accorpamenti tra Dipartimenti e Facoltà che prima erano autonomi. L’idea in sé non è male e, in teoria, dovrebbe condurre a una razionalizzazione globale del sistema con conseguente taglio delle spese. Una necessità, visto il periodo di crisi che stiamo attraversando.
Si dà però il caso che chi vive all’interno dell’accademia italiana sa fin troppo bene che si tratta di pie illusioni. Il motivo è presto detto. Dopo la fine dell’università che veniva definita “dei baroni”, è cresciuta in modo abnorme una schiera di docenti che hanno fatto della dianzi citata “politica accademica” la loro principale – e a volte esclusiva – attività. Costoro spendono la maggior parte del tempo a organizzare elezioni, le quali si susseguono senza tregua. Perché non ci sono solo Dipartimenti e Facoltà, ma anche Corsi di laurea – triennali e biennali – Senati accademici, Consigli di amministrazione, e una miriade di commissioni importanti in cui c’è sempre qualcuno da eleggere. E occorre aggiungere che il trend coinvolge in pieno anche il personale amministrativo. Ovvio che i politici (nel senso accademico del termine) e i sindacalisti finiscono sempre per avere la meglio: dopo tutto è il loro mestiere.
Faccio molta fatica a spiegare i meccanismi elettorali del nostro sistema accademico ai colleghi stranieri, o almeno a quelli che vivono nei paesi con le Università più avanzate sotto il profilo scientifico e didattico. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, per esempio, tutti i docenti devono fare a turno il Direttore di Dipartimento o il Preside di Facoltà, cariche percepite come un peso perché tolgono tempo a ricerca e insegnamento. Ancora più chiara la situazione del Rettore, che nel mondo anglosassone viene di solito chiamato “President”. Esiste una carriera parallela per docenti che scoprono di amare il lavoro burocratico e amministrativo. Chiunque la intraprenda deve letteralmente “studiare” materie amministrative e giuridiche, dimostrando poi di avere i titoli giusti per gestire un sistema complesso. Quando un President scade o si dimette vene bandito un concorso riservato a persone che possiedono i titoli dianzi citati. La scelta spetta a un comitato (board) che non è composto da docenti. Ecco perché in quel caso è difficile che un ateneo fallisca: è gestito con criteri manageriali. E, se fallisce, nessuno pensa di salvarlo tappando i buchi con il denaro pubblico.
Inutile dire che in Italia un sistema simile viene tacciato di mancanza di democraticità da parte di politici (accademici) e sindacalisti. Ma – mi chiedo – è veramente democratico costringere i docenti universitari a una serie infinita di primarie, campagne elettorali, riunioni burocratiche di ogni sorta? E, se sì, cosa intendiamo per “democrazia”? Non stiamo forse scordando che l’Università è nata per essere una communitas di professori e studenti, in cui i primi hanno il compito essenziale di impartire ai secondi un’educazione di carattere superiore? A mio avviso la risposta è automatica, e duole constatare che in Italia si procede nella direzione opposta.