Vacanze italiane e quella strana voglia di cupio dissolvi
05 Luglio 2020
In questa strana estate Covid, così diversa da tutte le altre, scavando in fondo alla politica italiana si ritrova una strana sensazione di cupio dissolvi che riporta alla luce sensazioni già provate in stagioni più ordinarie.
Queste voglie, un tempo, venivano esorcizzate dai governi balneari. Nella politica di oggi godono di una briglia più sciolta: l’anno scorso hanno trovato sfogo su una spiaggia della riviera romagnola denominata “Il Papeete”; quest’anno fanno capolino in cineforum all’aperto dove il premier si presenta – forse per la prima volta – “in compagnia della sua compagna”. Il raffronto sollecita un commento: pandemia oblige. E qui si potrebbe chiudere il discorso. Se non fosse che la scena – quest’anno come l’anno che lo ha preceduto – evidenzia una propensione al protagonismo sospeso tra pubblico e privato che i leader politici moderni assecondano quando pensano di poter affrontare il giudizio del popolo.
E già: il governo appare così sfilacciato, così inadeguato di fronte alla bisogna che niente si può escludere durante l’estate o forse subito dopo. Se dovesse accadere, quest’anno, a differenza di quello scorso, non sarà quantomeno un problema richiamare i parlamentari: le vacanze italiane sono più facili da convertirsi in vacanze romane.
Se però per la politica italiana il cupio dissolvi estivo è tradizione antica per quanto non nobilissima, che si aggiorna nelle forme, questa volta non è facile comprendere dove esso ci possa condurre. “Elezioni subito”, chiedono a gran voce le opposizioni: improbabili, quasi impossibili. Ci sono temperie nelle quali, per chi sa di istituzioni, il calendario non può essere considerato una sovrastruttura.
Il prossimo 20 settembre in Italia si voterà un po’ su tutto: amministrative, regionali, referendum costituzionale. Già, il referendum: forse per esorcizzarne il risultato, politici e commentatori sembrano glissare sul significato di quel voto. A causa dei suoi effetti è assai probabile che cambi la composizione del Parlamento e che, per questo, si modifichino i criteri di rappresentanza. Di conseguenza, se non la si vorrà modificare, bisognerà quanto meno adeguare la vigente legge elettorale alla nuova realtà e ai nuovi numeri.
Nell’atteggiamento della gran parte della politica, oltre ad omettere, vi è anche la tendenza a obliare: a non voler rimembrare il tempo di nostra vita ordinaria (prima del Covid) quando quel referendum fu convocato, per essere poi rinviato causa pandemia.
Ho già avuto modo di affermarlo e oggi lo ribadisco: date queste circostanze a me pare che nemmeno nella Repubblica delle Banane verrebbe concesso di votare per eleggere un Parlamento che lo stesso giorno un referendum costituzionale modifica nella sua struttura e, per questo, almeno in parte delegittima. Se si considera poi che quel Parlamento di lì a non troppi mesi sarebbe chiamato a rieleggere il Capo dello Stato, l’inopportunità costituzionale si trasforma in un macigno politico. Non scherziamo. Se ci sarà voto anticipato, questo dovrà tenere conto del risultato del referendum che si svolgerà in necessitato ritardo sui tempi previsti dalla Costituzione. Sarà, dunque, nella finestra compresa tra gennaio e fine giugno. Ed è facile previsione che a causa di questa tempistica il numero dei capponi in Parlamento, già non insignificante, dopo il 20 settembre sarà destinato ad aumentare.
Ieri si è svolta una ordinata manifestazione delle opposizioni di centrodestra. Non solo legittima visto il disastro governativo ma, almeno per una ragione, addirittura opportuna. Fino a ieri, infatti, avevamo la strana sensazione che persino il distaccamento sociale fosse sottoposto alle regole non scritte del politicamente corretto: se manifesti per Floyd e contro Trump a Bologna ti puoi accalcare, se ce l’hai con il governo devi assicurare una distanza pari quanto meno alle “rime buccali”, seguendo l’immortale suggerimento di una sua illustre esponente.
Nella iniziativa però, oltre alla rivendicazione di una vitalità, alla serrata e sacrosanta critica dell’esecutivo, all’immancabile richiesta di “elezioni subito”, difficile trovare altro. I puristi avrebbero preteso una visione per il futuro del Paese. Quando esci da un’ecatombe ignota dal tempo delle guerre, da una crisi che ha toccato, insieme, il senso del limite, l’idea di libertà e ha chiamato in causa la trascendenza; quando ti trovi di fronte a interventi economici di tal portata da modificare i blocchi sociali e le strutture consolidate; quando l’emergenza ha avuto la forza di cambiare e in parte sfigurare il volto delle istituzioni, non sembra chiedere troppo.
Non ci si poteva aspettare nulla di tutto ciò da una manifestazione e infatti non ce lo aspettavamo. Ci sono due punti, però, sui quali le forze dell’opposizione non possono continuare a tacere e che nessuna manifestazione sarà in grado di nascondere, pena una perdita di credibilità che forse non si rifletterà nelle percentuali elettorali ma che non per questo è meno grave.
La prima è chiarire: se il cupio dissolvi di Conte & Co. dovesse compiersi senza che per questo si giunga alle elezioni cosa s’intende fare? Giocare al tanto peggio tanto meglio, rischiando di trovarsi a governare macerie, oppure predisporre un piano d’emergenza per assumersi – a condizioni ben precise – le proprie responsabilità?
La seconda questione è correlata alla precedente e, se possibile, ancora più importante: ci si rende conto che gli scostamenti di bilancio già praticati, al netto dei soldi in prestito che potrebbero arrivarci, hanno già portato il nostro debito pubblico oltre al 160% di un Pil in vorticosa discesa?
Questa realtà rende quantomeno impervia una gestione domestica della crisi a meno di volerla risolvere a colpi di patrimoniale, confessa o mascherata che sia. Diciamolo senza infingimenti: al di là delle legittime e differenti propensioni ideologiche, nelle condizioni in cui siamo – e nelle quali questo esecutivo ci ha condotto – per chi ambisca a un ruolo di governo è impossibile pensare di non avere un rapporto con l’Europa.
Non si chiede a nessuno di prendere la patente d’europeismo. Si suggerisce, più umilmente, di candidarsi a guidare il Paese con autorevolezza per non correre il rischio – ben noto alle cronache politiche nazionali – che una eventuale vittoria elettorale, in qualunque momento essa si produrrà, si compia nel segno dell’effimero.