Vai al Salone del Libro di Torino e ti spieghi perché ha vinto Fassino

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Vai al Salone del Libro di Torino e ti spieghi perché ha vinto Fassino

18 Maggio 2011

Ci siamo cascati anche quest’anno: siamo andati al Salone del libro di Torino, o Fiera del libro che dir si voglia (le due denominazioni si sono alternate negli anni, ora tocca a “Salone”). Confessiamo di aver varcato i cancelli del Lingotto fiere solo perché l’invidiatissimo pass da giornalista ci ha permesso di non pagare il biglietto di entrata. Mica perché siamo eccessivamente tirchi, ma tirare fuori dal portafogli dieci euro per entrare in una libreria, seppur grande, non ci è mai sembrato giusto.

Gli editori presenti al Salone, che pagano un affitto salatissimo (infatti non tutti se lo possono concedere) per metter le tende sul suolo dell’antica fabbrica Fiat, non fanno nemmeno sconti ai visitatori. Non gli è permesso a causa di un accordo con i librai sabaudi che si troverebbero costretti ad affrontare una concorrenza abbastanza sleale. Dunque, ogni libro acquistato al Salone ha il prezzo non solo ridotto ma bensì maggiorato a causa del prezzo di entrata. Indubbiamente un biglietto meno esoso invoglierebbe a spendere di più in libri. In ogni caso molti torinesi, e non solo, non si sono fatti troppi problemi in passato e nemmeno quest’anno; si sono riversati nel tempio del prodotto librario. Vedendo la folla stipare gli stand di Feltrinelli, Mondadori o Einaudi, viene il dubbio che si tratti di persone che non frequentano le librerie durante il resto dell’anno. Perché, infatti, schiacciarsi come una sardina per sfogliare e comprare volumi reperibili in qualunque libreria? E, ricordiamolo, senza beneficiare dello sconto? Misteri di Torino città magica. 

Ma al Salone si va anche per passare una giornata con la famiglia, gli amici o i compagni di classe; Un po’ come al centro commerciale di sabato pomeriggio. In effetti si può vivere dentro il Salone per ore. Perfino pasteggiare, anche se non proprio a buon prezzo. Stremati dallo slalom fra i visitatori e il troppo tempo in piedi a mettere il naso fra i volumi, anche noi ci siamo concessi un invitante panino con la porchetta. Un po’ salato, a dir la verità. Non di gusto, di prezzo: cinque euro. Ma basta essere così venali, perbacco! Si sta parlando di cultura, di elevazione dello spirito!

In effetti chi critica il prezzo d’entrata in quella che per cinque giorni è la più grande libreria d’Italia e d’Europa, si sente spesso rispondere che al Salone si va anche per seguire gli incontri con gli autori, i dibattiti, le presentazioni. E allora l’abbiamo fatto anche noi. Abbiamo ascoltato un Dario Franceschini in gran forma presentare allo stand Rizzoli il suo ultimo romanzo dall’atmosfera bunga-bunga. Ci siamo goduti un grande Enrico Ruggeri esordiente nel campo della narrativa. Convinti però di far piacere ai lettori dell’Occidentale, abbiamo fatto di tutto per non perderci alcuni incontri organizzati dal quotidiano amico La Repubblica.

Barbapapà Scalfari, ad esempio, ha disquisito sulla patologia erotica che affligge il presidente del Consiglio; il neo sindaco di Torino Fassino, seduto in prima fila con sua signora accanto, applaudiva. Beffando (sempre grazie al pass da giornalista) i tanti rimasti fuori dalla Sala Rossa stracolma, abbiamo assistito all’incontro intitolato “Che significa credere?”. Ne discutevano pezzi da novanta delle classifiche librarie, due titani del pensiero che vorrebbero insegnare al Papa il suo mestiere: il teologo Vito Mancuso e il matematico Piergiorgio Odifreddi. Il primo faceva la parte del credente (nella libertà di fede beninteso, non nella Chiesa) il secondo era nelle vesti dello scettico che puzza di zolfo. Mancuso, per spiegare il bisogno di credere insito in ogni uomo, ha citato Franco Battiato: “Un centro di gravità permanente” è ciò che tutti cerchiamo. Poi ha citato Pavel Florenskij, insigne matematico, filosofo e teologo assassinato dai sovietici nel 1937. Sarebbe bastato quel nome per far tacere l’impertinente matematico telegenico Odifreddi. Invece no, ha parlato lo stesso. Sebbene “qualcuno dall’alto” gli avesse fatto calare un po’ la voce (era reduce da un viaggetto in barca a vela, mica ha problemi a comprarsi un panino da cinque euro, lui). Tra le altre cose, è riuscito ad infilare un attacco a Berlusconi (scontato l’applauso dell’impertinente platea) fra i dati sul numero degli scienziati credenti e una citazione da Anselmo d’Aosta.

Dulcis in fundo, siamo riusciti ad infilarci anche al dibattito fra Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro, senza indignati bimbi tredicenni al seguito. Inedito e originalissimo oggetto del contendere era il futuro della democrazia. Il giurista sommo ha ammonito tutti i suoi fan: “Saremo in democrazia fino a quando saremo in grado di mettere in discussione il potere delle oligarchie”. Il direttore di Repubblica annuiva con aria grave. Eppure non stavano parlando due barboni buttati in un angolo della stazione Porta Nuova, ma onorati membri di un’oligarchia. Quando Mauro ha detto per l’ennesima volta che “la realizzazione della democrazia oggi trova una difficoltà nel populismo carismatico”, abbiamo capito che era ora di sloggiare. Abbiamo abbandonato il Salone per prendere un po’ d’aria fresca e di sole. Tanto ci cascheremo e torneremo anche l’anno prossimo, a meno che ci venga a mancare il pass da giornalista.