“Venga il tuo Regno”, dice la preghiera. Dove? Prima di tutto in terra
12 Aprile 2009
di Tod Lindberg
Al centro del “Discorso della Montagna”, Gesù pronuncia le parole che ci sono state tramandate come il “padrenostro” (Matteo 6:9-13). Queste parole sono sicuramente le più famose e più recitate al mondo. Eppure è sorprendente come si possa rintracciare un aspetto di tali parole che in questi due millenni è stato sottovalutato persino da coloro che le hanno ripetute più spesso. “Venga il tuo regno – dice la preghiera – sia fatta la tua volontà”. Dove? “In terra” (Matteo 6:10).
A questo punto si potrebbe interpretare questa frase come un’invocazione all’arrivo, in un tempo futuro, di una figura regale che incarni e dispensi una giustizia perfetta, e forse è questo il significato che chi ascoltò Gesù diede alle parole “Padre nostro che sei nei cieli” (Matteo 6:9). Tuttavia il linguaggio utilizzato non si riferisce esplicitamente all’arrivo di un re, ma di un regno. Un regno è un luogo in cui la volontà del re è sovrana, è legge. Ed è questa “volontà” che deve essere “fatta […] in terra”. Gesù sta dunque parlando dell’arrivo della legge sulla terra.
Come abbiamo visto questa legge dev’essere distinta sotto certi aspetti dalla legge antica. Non possiamo considerare la legge antica esistente ai tempi di Gesù come la parola definitiva sulla legge, come un insieme completo e immutabile. Possiamo tuttavia interpretare le parole di Gesù come il compimento della legge, la proclamazione dell’insegnamento per mezzo del quale “tutto [sarà] compiuto”. Perciò è l’insegnamento gesuista su come vivere nel mondo che si risolverà, nel tempo, con l’arrivo del “regno”. Questo regno non può essere definito come un luogo in cui domina esclusivamente il volere arbitrario di un sovrano capriccioso. Piuttosto la conoscenza della volontà che deve governare "in terra" – ovvero, quella della comunità gesuista – è pienamente accessibile alle persone attraverso l’insegnamento di Gesù e il suo “compimento” della legge. Sta alle persone stabilire in che misura mettere in atto tale insegnamento.
Bisogna tenere a mente che lo scopo di Gesù qui è insegnare alle persone come si prega. Egli comincia diffidando chi lo ascolta dallo “sprecare parole come i pagani” (Matteo 6:7). Per cosa, dunque, bisognerebbe pregare? La lista è considerevolmente breve: per l’arrivo del “regno” in terra; per il cibo quotidiano; per il perdono dei nostri sbagli in relazione al nostro perdono degli sbagli altrui (perciò il contesto qui è una volta ancora un ordine sociale basato sul diritto, non sullo stato di natura); per non essere indotti al male e per essere liberati o preservati dai malfattori. Tutte queste cose menzionate rappresentano un elemento ovvio dell’insegnamento politico e sociale già offerto da Gesù, tranne una: il pane. A prima vista questa supplichevole richiesta di cibo potrebbe sembrare fuori luogo. Nel padrenostro si implora l’arrivo delle condizioni in cui le persone possano agire in modo giusto, perdonarsi a vicenda e non essere preda dei malfattori. Che cosa c’entra il pane?
Innanzitutto dobbiamo intendere l’uso del termine greco artos (pane) nel senso di “beni necessari al sostentamento”. A questo punto possiamo chiederci: cosa accadrebbe all’ordine sociale fondato sulla buona volontà se all’improvviso non ci fosse più pane da mangiare il giorno dopo? In altre parole, che possibilità ci sarebbe di realizzare un ordine sociale basato sui princìpi gesuisti – il “regno che deve venire” – se le persone stessero letteralmente morendo di fame? Sembra chiaro che una comunità basata sugli insegnamenti di Gesù – che richiede un alto livello di comportamento etico e la limitazione delle pratiche dettate da passioni del tutto umane in nome di un più alto grado di fratellanza e dell’estensione delle relazioni amichevoli – sia facilitata da un certo grado di svincolamento dalle necessità.
Come Gesù sa bene, ovviamente non è vero che l’unico modo per ottenere il proprio pane quotidiano sia attraverso l’intervento divino (salvo che magari non si considerino frutto della volontà o del dono di Dio la capacità di guadagnarsi il pane o di saperselo fare). Ad ogni modo, non c’è niente in questo passo che faccia pensare che secondo Gesù non si debba far altro per procurarsi il pane (o i mezzi di sussistenza) se non pregare. Se possibile, bisognerebbe andare a lavorare. Sarebbe strana una dottrina che richieda a un essere divino la consegna, per mezzi divini, di un qualcosa che le persone possono assolutamente ottenere con i propri sforzi. Sembra dunque appropriato concludere che Gesù non stia immaginando una terra di persone che conducono una vita comoda e oziosa, cui tutti i “beni necessari al sostentamento” vengono dati senza sforzo. Che Gesù si aspetti che le persone lavorino per conseguire mezzi di sussistenza appare chiaramente in molte sue parabole, come vedremo.
Ma coloro che si sono già guadagnati il pane quotidiano e futuro devono continuare a pregare di averne? Ci sono due ragioni che portano a rispondere in senso affermativo. La prima, elementare, è che il mondo è pieno di incertezze, e anche se hai fatto provviste di pane non puoi essere sicuro di aver soddisfatto i tuoi bisogni futuri ed evitato la possibilità che la sorte cambi le cose. Potrebbe arrivare l’esercito di un conquistatore e portarti via tutto: anche il migliore dei piani può fallire. Al massimo si possono prendere provvedimenti volti ad assicurarsi da qualsiasi eventualità. Ma sarebbe arrogante supporre che tali precauzioni siano inattaccabili. Tuttavia la ragione più significativa per rispondere di sì è contenuta nello stesso padrenostro.
Gesù formula tale preghiera come una supplica collettiva, non individuale. Non indica alle persone di dire: dammi il mio pane quotidiano, rimetti a me i miei debiti, liberami dal male. Al contrario, è una preghiera per noi. Ma “noi” chi? Come minimo tutti coloro che recitano la preghiera. E questo vale sia nel caso posseggano i mezzi di sostentamento necessari sia nel caso contrario. In questo senso, la propria condizione personale risulta irrilevante. La richiesta nella preghiera è che tutti ricevano il pane quotidiano. Finché non abbiamo tutti di che vivere, la richiesta rimane valida per tutti “noi”. Non sarebbe un’esagerazione osservare che una volta che ho provveduto con le mie forze ai “beni necessari al [mio] sostentamento”, ho il dovere di aiutare gli altri a provvedere ai loro bisogni.
Ciò anticipa un insegnamento gesuista che incontreremo in seguito nella sua forma più completa, vale a dire il fatto che chi possiede più beni ha una responsabilità particolare nei confronti di chi ne possiede meno. I nostri doveri non finiscono quando abbiamo provveduto solo ai nostri bisogni personali. Si considerino le calamità naturali, come ad esempio un terremoto o uno tsunami: quando veniamo a sapere di eventi così terribili, il nostro impulso, sulla base dell’insegnamento gesuista, non è ridere della sfortuna altrui o sforzarci di ricordare l’accaduto per fare incetta di provviste nell’eventualità che una simile sciagura possa colpire anche noi. È spedire soccorsi a coloro che ne hanno urgente bisogno.
Ad ogni modo il senso in cui Gesù utilizza il “noi” non è in realtà limitato a coloro che recitano la preghiera da lui indicata. Prima di rivelare il padrenostro, Gesù dice una cosa che suona un po’ strana rispetto a quanto segue: “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Matteo 6:8). Tuttavia, se ciò è vero, è vero sia per coloro che si prendono la briga di recitare il padrenostro, sia per coloro che non lo fanno. Gli individui, in quanto umani, hanno determinate necessità primarie. Sono bisogni universali, che si reciti o meno la preghiera. Gesù non suggerisce che solo coloro che recitano la preghiera dovrebbero vedere soddisfatte le loro necessità; ne ha già riconosciuta l’universalità. Si pensi al caso dei “poveri in spirito”, così oppressi da essere persino incapaci di pregare per loro stessi. Gesù non cerca di escludere tale categoria dai benefici richiesti in questa preghiera. Al contrario, egli ha enfaticamente parlato a favore dei bisogni di queste persone – in realtà di tutte le persone. Nel suo senso più profondo, il “noi” cui si riferisce è tutti noi, tutte le persone.
Da ciò che Gesù dice, non solo i bisogni umani sono universali, ma “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima che gliele chiediate”. Ciò porta a domandarsi perché pregare per il pane quotidiano. Forse, se si avesse il pane, bisognerebbe fare una preghiera di ringraziamento. Ma questa preghiera non è esattamente formulata in questi termini, come la preghiera di ringraziamento prima di un pasto: è una supplica. Inoltre, se a qualcuno manca il pane per il giorno dopo, secondo ciò che Gesù stesso dice, non è necessario specificarlo. Si sa già. Gli elementi specifici per i quali Gesù dice di pregare, a cominciare dal pane quotidiano, rafforzano la valenza cooperativa della preghiera. Lo scopo fondamentale del pronunciare il padrenostro non è ricordare al Signore ciò di cui ho bisogno (cosa che, dice Gesù, il Padre conosce già). Lo scopo della preghiera, in questo mondo, è ricordare a coloro che la recitano, che gli altri hanno gli stessi bisogni: “io” sono parte di “noi”. Noi siamo coloro che dobbiamo tenerlo a mente.
Visto attraverso questo prisma, lo scopo delle altre richieste specifiche del padrenostro diventano più chiare: così come desideriamo che ci vengano perdonate le nostre manchevolezze, dobbiamo ricordarci di perdonare agli altri le loro. La tentazione si presenterà sempre davanti a noi, e dobbiamo tenere a mente di non cedere a essa. Quando gli altri sbagliano, potremmo trovarci di fronte alla necessità di perdonarli. La liberazione dal peccato – che si realizza tenendolo lontano da noi e sfuggendo alla sua morsa – è interesse di tutti. Ed è per questo che dovremmo collaborare e aiutarci l’un l’altro a tale scopo.
Inoltre l’importanza sociale di questa preghiera conduce a un ulteriore interrogativo: quale sarà lo status del padrenostro quando la richiesta di Gesù che “tutto sia compiuto” sarà realizzata sulla terra? Diventerà obsoleto? Sono due le questioni in gioco in queste domande. La prima è che dovremmo essere certi che “tutto sia[stato] compiuto” su tutta la terra e per tutti gli uomini. Finché non raggiungiamo questa certezza – se mai avverrà – dobbiamo diffidare dell’autocompiacimento. E a ricordarcelo sarà sempre il nostro fallimento nel risolvere il problema del bisogno di “beni necessari al sostentamento”, vale a dire del “nostro pane quotidiano”. Oggi la fame e il bisogno sono molto diffusi nel mondo, e non dobbiamo accontentarci della nostra prosperità.
La seconda questione in gioco è che, anche qualora fossimo certi che “tutto sia [stato] compiuto” per ognuno di noi, la nostra opera non sarebbe ancora terminata. Dobbiamo chiederci: che ne sarà del futuro? Qui Gesù ci spinge ad affrontare una dura verità: il suo è un insegnamento politico e sociale che può guidarci nell’organizzare le questioni terrene in modo tale che il desiderio di giustizia – desiderio primario – sia soddisfatto per tutti. Sfortunatamente il nostro compito non finisce qui. Altrimenti non ci sarebbe più bisogno del padrenostro. Per esempio c’è ancora la possibilità che le contingenze possano intaccare le provviste di beni primari: le carestie, le calamità naturali.
Ma soprattutto il maggior ostacolo risiede in noi. Finché siamo ciò che siamo, ci ricorda Gesù, saremo sempre inclini prima o poi a offendere gli altri (magari perché pensiamo a noi stessi, a “me” piuttosto che al “noi” della preghiera). Vorremo essere perdonati, e quindi faremmo meglio a ricordare che dobbiamo perdonare. La tentazione sarà sempre davanti a noi. E dal momento che alcuni di noi potrebbero cedere a essa, ci sarà sempre il rischio di incappare nel male. Questo sarà vero anche quando “tutto sia compiuto”. Perciò la preghiera con cui ricordiamo a noi stessi cosa dobbiamo l’uno all’altro rimarrà per noi necessaria.
Nel menzionare "il nostro pane quotidiano" Gesù tenta un primo approccio, per quanto incerto, al problema dell’economia politica. Gesù sottolinea la dimensione sociale del suo pensiero insegnando a ognuno di noi a cercare i beni primari non solo per noi stessi, ma anche per tutti noi. Ognuno di noi ha dentro di sé la capacità, autonoma rispetto alla possibilità che gli altri possano danneggiarci, di agire liberamente, ma non la esercitiamo in modo appropriato se pensiamo che sia semplicemente la libertà di fare ciò che si vuole. Dobbiamo agire in modo da garantire la medesima libertà agli altri, e spingerli a fare lo stesso. Non è una condotta dettata semplicemente dalla filosofia morale, da ciò che “dovremmo” fare in quanto giusto di per sé; anzi, Gesù ci insegna che traiamo vantaggio dall’agire in modo giusto quando anche gli altri fanno altrettanto.
Tod Lindberg è membro dell’Hoover Institution presso la Standford University e direttore della rivista "Policy Review". Collaboratore del "Weekly Standard", è analista politico per la National Public Radio.
Tratto da "Gli insegnamenti politici di Gesù", pp.70-75, Newton Compton Editori 2009. Tutti i diritti riservati.