Vi spiego perché ho cambiato idea  sulla legge di fine vita

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Vi spiego perché ho cambiato idea sulla legge di fine vita

13 Ottobre 2008

Secondo Filippo Facci, che sul Giornale mi ha attaccato per le critiche mosse all’atteggiamento pilatesco della Corte Costituzionale sul caso di Eluana Englaro, io non avrei titolo per contestare l’invasione di campo della magistratura sui temi del fine vita e rivendicare al Parlamento la potestà legislativa, poiché sarei tra quanti opponendosi a una legge sul testamento biologico avrebbero "lasciato dolosamente scoperti gli spazi di cui la magistratura non ha potuto non occuparsi". 

Vale la pena di giocare a carte scoperte. Facci ha torto marcio quando mi colloca fra quanti hanno rallentato l’iter della legge: in realtà nella scorsa legislatura ad impedirne l’approvazione sono state le divisioni all’interno della sinistra. Ma ha ragione quando afferma che ho cambiato idea e che dopo aver ritenuto non auspicabile legiferare sulla fine della vita, sono invece divenuto un sostenitore della necessità che il Parlamento intervenga. E’ dunque il caso, una volta per tutte, di spiegare il perché. 

A lungo sono stato convinto, in linea di principio, che laddove è in gioco il confine tra la vita e la morte è bene che i parlamenti facciano un passo indietro. Le situazioni che si propongono, infatti, sono diverse l’una dall’altra. E’ difficile ricondurle a un minimo comune denominatore. E la saggezza empirica delle persone rivendica diritti che la legge non può attribuire loro. 

Mi sembrava questa la linea più appropriata per contrastare una tendenza che considero espressione di un nuovo pensiero totalitario: quello del XXI secolo. Se infatti nel secolo che si è da poco concluso il totalitarismo ha costruito il più grande progetto di ingegneria sociale che la storia dell’umanità abbia mai concepito, battuto in breccia dal fallimento del comunismo, esso sta cercando la sua rivincita nella dimensione antropologica. E’ qui che si annida la pretesa di tutto stabilire e tutto controllare dell’esistenza umana. Dalla culla alla bara. Anzi, per precisione, anche prima della culla e anche dopo la bara. 

Lungo questa deriva la vita diventa un progetto che può essere controllato in ogni suo istante. Perde ogni sorpresa e ogni meraviglia. Si fa prevedibile e, dunque, pianificabile. L’uomo acquisisce così il diritto di poter stabilire cosa sarà di lui anche in stadi che sfuggono alla sua esperienza. Viene meno per lui la possibilità di cambiare idea e di contraddirsi. Si svilisce la nozione in base alla quale la conoscenza umana è legata all’attraversare dall’interno stadi e situazioni che non possono essere artificialmente anticipati con la sola proiezione del pensiero. Per tutte queste ragioni la tendenza a regolare, legiferare, trasformare in diritto ogni desiderio, in pretesa ogni presunta libertà, mi è a lungo sembrata incubare una propensione portatrice dei demoni che hanno già infestato il secolo scorso. 

In tema di volontà anticipate, però, qualcosa è cambiato. Non rendersene conto significherebbe danzare attorno al totem della coerenza, anche a costo di scivolare nella stupidità.

Tutto iniziò nel 2007 con la sentenza della Corte di Cassazione che riguardava proprio il caso di Eluana. Fu allora il senatore Cossiga, in un pranzo privato col presidente Berlusconi, ad esprimersi sulla enormità di quel pronunciamento, che non si limitava a riempire un vuoto normativo ma, oltrepassando i principi generali dell’ordinamento, giungeva a legiferare sul tema del fine vita, stabilendo il principio per il quale il tutore può intervenire nella sfera dei diritti personalissimi, determinando la morte dell’incapace, sulla base di presunzioni dedotte dal pregresso stile di vita di quest’ultimo. Al di là del merito abnorme, si trattava di una evidente invasione di campo delle prerogative del Parlamento. 

Berlusconi me ne parlò telefonicamente e mi chiese in che modo si potesse intervenire. Nacque allora – eravamo ancora nella XV legislatura – una mozione per l’elevazione di un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale che portava le firme del presidente Schifani, del presidente Cossiga e del sottoscritto. 

Quella mozione è tornata di stretta attualità un anno dopo, quando la Corte d’Appello di Milano ha recepito e dato applicazione alle prescrizioni della Cassazione. In quel momento il contenuto della sentenza si è fatto dirompente, poiché andava a incidere nel sangue e nella carne di una situazione concreta, determinando conseguenze che presto avrebbero potuto diventare irreversibili. 

Si pose allora il problema: contrastare quella sentenza solo sul terreno giudiziario, oppure rivendicare in nome della politica la competenza a intervenire su una dimensione dello spazio pubblico che non era più nella libera determinazione degli individui? Rovesciando lo schema, si trattava, insomma, di garantirsi nei confronti del determinismo antropologico in modo diverso. Attraverso i paletti che una legge può fissare, evitando così che la sentenza della Cassazione si radicasse. 

Questa scelta di fondo ne comportava un’altra, di natura più strumentale. Non era difficile, infatti, prevedere che di fronte ad un conflitto di attribuzioni elevato dal Parlamento la Consulta avrebbe dato torto a quest’ultimo. Sia per una ragione di orientamento politico, sia per il fatto che una diversa sentenza nel merito avrebbe determinato la smentita di almeno una parte di quella giurisprudenza creativa della quale la Corte è stata artefice. 

Procedere lungo la strada del conflitto, dunque, anche in presenza di questa consapevolezza, avrebbe avuto un senso solo nel caso in cui si fosse trattato di un primo atto attraverso il quale rivendicare la necessità di un intervento della politica. Si trattava, insomma, di rivedere le vecchie propensioni e incamminarsi lungo un differente percorso. In tal senso, anche una sconfitta di fronte alla Consulta sarebbe potuta servire. A volte, per vincere le guerre, è necessario passare attraverso battaglie infauste. Serve a far nascere la volontà di combattere e a suscitare orgogli altrimenti sopiti.

Queste considerazioni furono condivise con quanti avrebbero potuto dare una mano a determinare una svolta in vista del raggiungimento del nuovo obiettivo. Per questo, tra l’altro, in Senato abbiamo contribuito ad approvare una mozione del Pd con la quale si chiedeva di arrivare al più presto all’approvazione di una legge. Restava una differenza di fondo sull’idea di cosa quella legge avrebbe dovuto essere. Ma iniziava a farsi più compatta, dalla nostra parte, la consapevolezza che un intervento del Parlamento fosse necessario; nello stesso tempo, invece, i settori più radicali della sinistra hanno iniziato a virare verso una diversa strategia: evitare l’approvazione di una legge affinché si consolidasse la sentenza della Corte di Cassazione, rendendola esecutiva attraversro la morte per fame e per sete di Eluana Englaro. 

Che le cose stessero proprio così, lo si comprese subito dopo che la Camera e il Senato approvarono l’elevazione del conflitto. Nei giorni immediatamente successivi, quando il solleone era ormai incombente, da parte di ambienti esterni all’ambito parlamentare vi furono pressioni sugli avvocati incaricati di redigere i ricorsi affinché le memorie fossero depositate entro il 14 agosto, in modo da chiudere la partita nell’udienza del 28 dello stesso mese. Pochi giorni dopo, agli inizi di settembre, si sarebbe discusso il ricorso che nel frattempo il Procuratore generale di Milano aveva presentato contro il decreto della Corte d’Appello che aveva applicato le indicazioni della Cassazione. Ancor prima della ripresa dell’attività politica si sarebbe potuto così chiudere il cerchio, imprimendo il sigillo dell’esecutività sulla "conquista civile" conseguita a mezzo sentenza. 

Il progetto saltò, grazie all’evidente constatazione che dieci giorni non sarebbero stati sufficienti per scrivere un conflitto di tale complessità. Si è così guadagnato un altro mese, servito a perfezionare i ricorsi, ma anche a far sì che al momento del primo e preliminare pronunciamento della Consulta, quello sull’ammissibilità, in Parlamento fosse ripreso l’iter della legge sul fine vita. 

Nel frattempo, dagli ambienti della Corte Costituzionale giungevano notizie sempre più preoccupanti. All’iniziale (e più sensata) apprensione per gli esiti ultimi del contenzioso si è sostituita, nei primi giorni di settembre, la notizia che la Consulta avrebbe respinto il conflitto già in fase di ammissibilità. Una posizione francamente debole ed estrema, dettata solo da motivi di opportunità politica: se si fosse entrati nel merito – ci fu detto dalle voci dal sen fuggite – la Corte sarebbe diventata il teatro di una battaglia mediatica, e i tempi si sarebbero allungati. 

Arriviamo così ai nostri giorni. Le informazioni che avevamo si sono rivelate esatte. La Consulta ha scelto la strada di Ponzio Pilato, attraverso un pronunciamento la cui debolezza è dimostrata dal fatto che non solo non ha ottenuto l’unanimità in sede di decisione, ma addirittura – al momento del voto – ha suscitato un dissenso che è andato oltre i soliti schieramenti politici.

Nonostante tutto questo abbia poco a che fare con la sostanza del ricorso, si è deciso di non enfatizzare il contenzioso con la Corte. Proprio perché, a questo punto, quel che conta è dimostrare di essere in grado di realizzare con i fatti ciò a cui quel ricorso mirava: la rivendicazione dei diritti della politica e la riappropriazione dei suoi spazi esclusivi. 

Così, mentre il pronunciamento della Consulta – al quale seguirà tra qualche giorno quello della Cassazione, che presumibilmente rigetterà il ricorso del pg di Milano – veniva anticipato dai nuovi squilli di tromba di una campagna mediatica, anche questa pianificata a tavolino, dai lavori della Commissione Sanità del Senato giungeva l’ulteriore conferma di come la strategia di quanti nella sentenza Englaro avevano visto una conquista civile fosse cambiata. 

I vecchi fautori della legge sono oggi passati all’ostruzionismo. Non a caso dalle file della sinistra, per volontà dei senatori Marino e Veronesi, sono giunte alla Commissione circa sessanta richieste di audizioni: un modo per allungare surrettiziamente i tempi e mandare tutto in vacca. Soprattutto se si pensa che tra gli illustri auditi vi sono "esperti" quali Umberto Eco, Ferzan Ozpetek, Roberto Benigni, Dacia Maraini, Massimiliano Fuksas, Renzo Piano, Moni Ovadia, Adriano Sofri, Corrado Augias.

Dunque, caro Facci, non solo noi abbiamo cambiato idea sulla legge. Anche altri hanno cambiato idea ma, diversamente da noi, l’hanno fatto senza confessarlo. Forse a differenziarci è il fatto che per un liberale la possibilità di contraddirsi è una libertà essenziale. Ed è proprio questa la ragione per cui noi riteniamo che a nessuno, nemmeno a se stessi, è in fondo consentita la presunzione fatale di conoscere ciò che la vita ti può riservare. E questo porta ad affermare che dietro contraddizioni ammesse, e dietro altre contraddizioni simulate, si cela quel conflitto tra libertà e determinismo che da sempre è uno dei più potenti motori del conflitto politico. Questo è ciò che nella partita è rimasto immutato.