Viaggio nella Russia di Putin, il paese che non sorride mai
25 Ottobre 2009
Il primo brusco impatto con la Russia, e la sensazione che non proprio tutto tutto andrà per il verso giusto, lo si ha non appena si scende dall’aereo a Mosca e, riavuti velocemente i bagagli, si aspetta in fila per un’ora buona al controllo passaporti: lì dei funzionari (molti di questi, impareremo presto, sono donne, ovunque, e si caratterizzano sempre per non essere migliori dei maschi) controllano il passaporto. Si fermano con aria truce a esaminare foto, noi, le nostre facce, a controllare sul computer se siamo delinquenti internazionali segnalati. Il controllo riguarda con la stessa accuratezza tutti, russi e non russi. Non trapela un sorriso, uno sguardo annoiato o stanco o divertito: non trapela niente se non durezza e rigore, disciplina e inflessibilità. Mi chiedo se in un paese normale, civile, sviluppato, come vogliamo dire?, sia concepibile aspettare un’ora per il controllo del proprio passaporto e con tanto di invito a un convegno internazionale in tasca. Aspettare senza che nessuno ti dica neppure salve! o buon soggiorno! Forse semplicemente gli insegnano a fare così, e loro lo fanno. Di fatto, ogni volta che qualcuno lavora o che si compie un lavoro, uno spostamento, una trasformazione, c’è qualcuno il cui compito consiste non nel lavorare o nell’aiutare la gente, nel dirigere il processo o nel riparare eventuali disguidi, ma nel guardare duramente, freddamente, in modo ingrugnato, chi lavora oppure ciò che accade. Scoprirò ben presto che questa è una regola di portata assolutamente generale. In Russia non si può semplicemente lavorare: occorre che qualcuno (possibilmente dotato di una divisa) controlli mentre altri lavorano.
Quella delle divise è una vera e propria ossessione nazionale: chiunque fa o controlla, o comunque ha un ruolo istituzionalmente stabilito, è dotato di divisa: dalla polizia onnipresente agli impiegati, dai venditori nei negozi all’esercito, dal controllore dei biglietti alla maschera nel ristorante. Le divise non sono quegli abiti freschi di lavanderia che potrebbero anche dare un senso di ordine e lindore: grigio-verdi, piuttosto stazzonate, di foggia che è un understatement definire antiquata (ad esempio, i cappelli dei poliziotti e dei soldati sono altissimi, e questo li fa sembrare bassi: un effetto indesiderato, penso), le uniformi parlano del ruolo che si svolge, della qualifica che si ha, dell’inserimento riuscito nella grande macchina della grande città del grande paese dell’ex-grande sogno socialista. L’effetto complessivo è quello di un campo di rieducazione nel quale siamo finiti per sbaglio, campo che possiede regole talmente rigide che neppure ai tempi delle colonie marittime di quando eravamo piccoli era così: ad esempio, al mausoleo di Lenin, dopo aver visto il Corpo del Capo che sembra non nuovo ma lavato con Perlana sotto le luci gialline (e quindi sembra che abbia, poveraccio, un principio di ittero), mi è venuto il dubbio se, fra le tombe degli statisti russi lì sepolti ci fosse anche quella di Cruscev. Ecchediamine!, ho pensato: c’è quella di Stalin e non c’è quella di chi lo ha denunciato al XX congresso? Impossibile. Eppure non l’avevo notata. Sono tornata sui miei passi per controllare. Bene: un soldato mi ha spinta indietro invitandomi a proseguire nel senso previsto dalla visita, cioè lontano dalle tombe e verso l’uscita. Spiegazione: al mausoleo di Lenin è vietato avere ripensamenti, tornare indietro, controllare. Si può solo procedere nel senso previsto dalla visita. E questo più per stolida ottemperanza a una regola ovvia che per esigenze di controllo politico sui visitatori.
In generale, questa è una sensazione che si ha spesso: che la stolidità e l’ubbidienza cieca abbiano preso il posto che un tempo era del fanatismo politico, della repressione, dell’accanimento contro chi la pensava in modo diverso. Oggi la lentezza, il nessun desiderio di capire quello che si dice, si chiede, si osserva, la noncuranza, il pretesto della lingua per non fare, non rispondere, non aiutare, regnano sovrani e caratterizzano ogni aspetto del paese. E’ come aver messo milioni di persone lente, nient’affatto curiose, e spesso con le palle in giostra, tutte insieme in una città totalmente smisurata: immaginatevi l’effetto. A parte la fretta in metropolitana e per le strade, quella nella quale ci si trova è una folla atona, fiacca, svogliata, impassibile e chiusa, chiusissima verso l’esterno, verso ogni impressione che giunga da fuori, verso ogni variazione rispetto alla norma.
L’impressione è quella di essere arrivati in un paese immusonito. Non triste, o depresso, o oppresso. Immusonito. I motivi di questa impressione: folle oceaniche senza chiacchiere o allegria, frettolose, sgarbate e silenziose di gente che si muove nella metropolitana (davvero indispensabile, ma ridotta all’osso rispetto alle distanze enormi della città di Mosca) a ogni ora del giorno e della sera; impiegati tutti (e tutte) invariabilmente con la faccia scura (se non peggio) che rispondono con un cenno vago (quando rispondono) alle domande che vengono loro poste; tassisti senza ironia che pretendono di discutere in russo, e non in inglese o in qualunque altra lingua, di qualunque problema si presenti nel percorso da compiere o nella transazione da effettuare; una massa compatta di automobili che occupa e blocca in file pressoché ferme i viali larghi due-tre volte i nostri che passano dentro e attorno alla capitale; risposte brusche da parte della stragrande maggioranza delle persone con cui si entra in contatto; nessuno che sorride: né le donne anziane che sorvegliano immobili chiuse dentro un gabbiotto lo scorrere delle scale mobili (e che rispondono con un’alzata di spalle a una domanda da parte nostra) né i negozianti, né i camerieri né i passanti, né gli studiosi che ho incontrato né nessun altro. Nessuno sorride, davvero nessuno. Certo, non ho visto le scuole né gli asili: speriamo in bene. Ma certo, se devo dedurre dalle cose viste non immagino situazioni granché liete.
Ma come!, pensavo fra me e me. Se la Russia comunista, l’URSS modello dei partiti comunisti occidentali dei bei tempi andati, si caratterizzava, in anni lontani dalla rivoluzione ma pur sempre inseriti nella lunga marcia del socialismo, per essere il paese in cui governanti sorridenti – sull’esempio intramontabile di Stalin – prendevano in braccio bambini sorridenti! Ricordo un compagno che negli anni Settanta raccontava a mio padre, curioso, del viaggio che aveva fatto là: fiori ovunque, bambini ovunque, tutti che sorridono! Alla faccia! Deve essere accaduto qualcosa di molto grave per spazzar via completamente dai volti ogni traccia di allegria, spensieratezza, gioia di vivere. Mi sono chiesta, ci siamo chiesti con i colleghi e compagni di viaggio, che cosa esattamente fosse accaduto. Devo dire che abbiamo accumulato talmente tanto sulla storia russa anche precedente la rivoluzione bolscevica, che ce n’è più che abbastanza per giustificare un immusonimento non transitorio dei russi. Ma – mi si obietterà -, mica la gente in metropolitana a Londra o a Parigi, a New York o a Praga, è sempre allegra! Certo, ne convengo. Ma non ha la cupezza, la passività, la durezza, dei moscoviti.
Anche perché scopro subito che i moscoviti sono tanti, probabilmente troppi per star bene insieme: Mosca conta circa sette milioni e mezzo di abitanti ufficiali, ma gli abitanti complessivi, inclusi quelli non registrati, ammontano al doppio. Quindici milioni di abitanti si muovono frettolosamente da una parte all’altra della città. La metropolitana è sempre affollata, sempre. Per forza! Con queste cifre, è solo ovvio. L’impressione del troppo pieno è costante, forte, e prende alla gola. Solo i ristoranti un po’ più cari sono (relativamente) tranquilli: costano. Credo che quando poi si passa nella sfera dei ristoranti e ritrovi molto cari (che non ho sperimentato di persona ma ho visto in gran quantità) la situazione precipiti di nuovo nell’affollato: i molto ricchi, infatti, sono molti. Sono evidenti, riconoscibili, si mostrano senza vergogna e senza imbarazzo. Esibiscono enormi Suv lucidi, ragazze giovanissime tirate anch’esse a lucido, abiti sempre neri e sempre griffati, occhiali griffati, anelli griffati, profumi griffati, scarpe italiane. Una bella impressione? No, non fanno una bella impressione. La settimana prossima vi racconto perché, e raccontandovelo parlerò dell’America e di Tocqueville, che con i Suv e le ragazze giovanissime c’entra pochino, ma con la Russia e la democrazia (o la mancanza di democrazia) c’entra moltissimo.