Vincent Lambert e il grande confronto sulla sacralità della vita umana nelle democrazie occidentali
20 Maggio 2019
Se si solleva un attimo lo sguardo dalle più rumorose polemiche che in questi mesi caratterizzano il dibattito politico nel nostro e in altri paesi – sovranisti contro globalisti/euroentusiasti, Occidente americanizzato contro Cina o Russia, e simili altre – è possibile scorgere un’altra linea di frattura, meno appariscente ma costante, onnipresente e, a ben guardare, più determinante per il futuro delle democrazie occidentali: quella imperniata sulla concezione della vita umana.
Si tratta di un confronto che si manifesta in diverse occasioni, nei luoghi più svariati, ma che rappresenta ormai oggi nelle liberaldemocrazie uno tra i più concreti, se non il più concreto, spartiacque tra l’ideologia progressista/libertaria e relativista egemone nelle classi dirigenti e i suoi oppositori.
Da un lato, la pretesa sempre più pressante e senza freni di legittimare la soppressione della vita degli individui più deboli – embrioni, bambini ancora non nati, anziani, ammalati – come condizione di una società fondata sulla libertà sregolata da ogni limite morale; dall’altro, la resistenza sempre meno episodica e più consapevole, al di là di divisioni tra ispirazioni religiose e laiche, contro questa deriva nichilista in nome di una idea di comunità tenuta insieme dalla cura per l’essere umano in ogni stadio del suo sviluppo e in ogni condizione, dalla difesa della famiglia, dalla salvaguardia della continuità tra le generazioni come presupposto della solidità della società di fronte agli agenti distruttivi esterni.
Così, negli ultimi mesi a proposito dell’aborto negli Stati Uniti si sta giocando una partita drammatica tra gli stati governati dai progressisti, che emanano leggi in cui si amplia la possibilità di abortire fino al nono mese, e viceversa stati retti da maggioranze conservatrici in cui la possibilità di abortire legalmente viene ristretta a stadi sempre più precoci della gestazione – o, come nel caso più recente dell’Alabama, viene quasi del tutto abolita.
In Europa, dove le legislazioni abortiste prevalgono ancora nella stragrande maggioranza dei casi, vediamo contrapporsi con sempre maggiore veemenza la propaganda che cerca di criminalizzare e impedire l’obiezione di coscienza contro l’aborto, e le iniziative di governi (nei paesi slavi e dell’Est del continente) o di movimenti (quello italiano riunitosi da ultimo al World Forum of Families di Verona ne è un esempio rilevante) per contrastare aborto e denatalità attraverso incentivi concreti alla maternità, dal fisco al welfare all’organizzazione del lavoro.
Per quanto riguarda poi l’eutanasia, da una parte in molti paesi emerge con crescente evidenza la tendenza dell’eutanasia a trasformarsi da caso limite invocato come atto pietoso per porre fine ad insopportabili sofferenze a sistematica eliminazione eugenetica di “vite indegne di essere vissute”, o alla soppressione altretanto sistematica di soggetti fragili, depressi, soli attraverso il condizionamento della loro volontà (se non a possibile, spietata scappatoia per tagliare i costi di sistemi pensionistici e sanitari sempre più onerosi in società demograficamente falcidiate in cui ormai gli anziani prevalgono nettamente sui giovani, e gli individui “improduttivi” su quelli “efficienti”). Dall’altra, però, questo piano inclinato desta crescente inquietudine nelle società perché è evidente ormai che, una volta superato il limite della custodia della vita sempre e comunque come principio ispiratore dell’autorità sanitaria, del sistema giuridico, delle istituzioni pubbliche è sempre più facile che le eccezioni divengano regola, e che nessun individuo possa ritenersi al sicuro da decisioni altrui che potrebbero legalmente porre in questione la legittimità della sua stessa esistenza.
E’ nel mezzo di questa dialettica estrema, di queste convulsioni in cui si dibattono quelle comunità euro-occidentali che per secoli hanno costruito la loro convivenza – sulla scorta delle radici ebraico-cristiane – sulla sacralità dell’essere umano, che si pone oggi un nuovo caso di braccio di ferro legale sul tema dell’abbandono dei sostegni vitali ad un ammalato in stato di minima coscienza o di mancanza totale di autonomia: quello, in Francia, di Vincent Lambert, ai danni del quale i medici dell’ospedale di Reims hanno avviato proprio oggi la procedura eutanasica, con l’assenso dei tribunali e della moglie, e nonostante la fiera opposizione dei genitori.
Dopo le tragiche vicende, negli anni scorsi, di Eluana Englaro e dei piccoli Charlie Gard e Alfie Evans, ancora una volta ci troviamo di fronte al tentativo da parte di strutture sanitarie, spalleggiato in gran parte dal sistema giudiziario nazionale e internazionale (in questo caso la Corte europea dei diritti dell’uomo) e dalle classi politiche, di imporre legalmente come “miglior interesse” dell’individuo non autosufficiente e contrasto all'”accanimento terapeutico” – insomma come atto di pietà e umanità – l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, se qualcuno dei parenti lo chiede anche in contrasto con altri (come in questo caso, similmente a quello celebre di Terry Schiavo), o addirittura (come nel caso dei piccoli inglesi affetti da patologie incurabili e invalidanti) anche contro la volontà dei genitori, in nome di una suprema sovranità dello Stato a decidere quando è opportuno che una creatura sia lasciata in vita e quando debba invece essere lasciata morire.
Nel caso di Lambert, nella lunga e tormentosa battaglia legale l’aspetto più peculiare è che non soltanto si è formato, come nei casi già citati, un movimento cospicuo di opinione pubblica – oltre che di uomini di cultura e giuristi – che protesta scandalizzato per la decisione di far morire di fame e di sete un paziente che non si trova in fin di vita, mantiene una sia pur minima capacità di risposta agli stimoli esterni e di relazione, e non è afflitto da sofferenze insopportabili; ma che anche organismi internazionali di grande rilevanza, come il Comitato internazionale sui diritti delle persone con disabilità dell’Onu, hanno chiesto di non procedere con l'”esecuzione della sentenza” ai danni dell’uomo innocente e indifeso.
Ancora una volta siamo di fronte ad un bivio nel conflitto profondo che lacera il tessuto etico e civile delle democrazie liberali. Se la procedura di soppressione mieterà una nuova vittima, sarà ancora più evidente come l’eutanasia, al pari dell’aborto, rappresenti ormai una vera e propria forma di suicidio e auto-estinzione della civiltà di origine europea. Se, viceversa, questa volta (è difficile ormai immaginarlo) prevalessero per una volta almeno – ma stabilendo un significativo precedente – le ragioni umanitarie più autentiche, quelle appunto della difesa dei soggetti più deboli, questo avvenimento rappresenterebbe quasi automaticamente il punto di coagulo di un moto di reazione di quella civiltà contro il nichilismo dilagante che la sta divorando.
Ed è proprio per questo che le forze contrarie alla sacralità della vita mostrano – in questa come in altre occasioni – un accanimento ed una inflessibilità degni di miglior causa, e sembrano ritenere la morte dell’ammalato come un obiettivo “politico” irrinunciabile.