Vincere è possibile ma serve la giusta strategia di contro-insorgenza
28 Febbraio 2009
Vent’anni anni fa il 15 febbraio del 1989, le truppe sovietiche lasciavano sconfitte l’Afghanistan. L’impero sovietico non era più al suo apice come alla fine degli anni settanta, quando imperversava in Africa sia direttamente che attraverso i suoi alleati cubani, ma comunque era sempre il secondo esercito di una delle due superpotenze, a poche misure di distanza da quello degli Stati Uniti. L’Afghanistan non aveva perso la sua fama: si era rivelato un’altra volta la “tomba degli imperi”.
Adesso, per gli Stati Uniti la situazione non è certo la stessa, ma continuamente arrivano segni preoccupanti (secondo alcune fonti, il 70% del paese è fuori controllo) a cui il nuovo governo americano risponde cercando di adattare, pur tra mille difficoltà e differenze, la strategia impiegata dall’amministrazione Bush per l’Iraq, da Obama durante la campagna elettorale sempre avversata.
I segni di logoramento sono molteplici:
1) il nuovo direttore dell’Intelligence nazionale, Denis Blair, avverte che il governo centrale è sempre più debole e corrotto, sta perdendo il controllo di molte zone e molti signori della guerra lo stanno abbandonando.
2) Un’economia, oramai allo sbando, è sostenuta quasi esclusivamente dal commercio di oppio.
3) L’accordo tra governo pakistano, il 16 febbraio, e i potenti locali per cambiare il sistema legale nella regione dello Swat, nord-ovest del Pakistan, per introdurre la legge islamica in cambio di una tregua nei combattimenti, viene giudicato da Richard Holbrooke, inviato speciale del presidente per il Pakistan e l’Afghanistan, una vittoria dei Talebani nelle aree tribali.
4) La nuova tecnica terroristica stile “Mumbai”, che utilizza pochi uomini per compiere attentati simultanei, è arrivata a Kabul dove sono stati colpiti tre differenti ministeri, segno di un continuo processo di apprendimento da parte di Al Qaida e dei suoi alleati.
5) Il voto negativo del parlamento kirghizo il 19 febbraio che mette fine all’accordo per l’ utilizzo da parte degli USA della base aerea di Manas, dove transitano 15.000 uomini e 500 tonnellate di materiale al mese americano verso l’Afghanistan. Ennesimo elemento di frizione tra la Russia di Putin e gli Stati Uniti.
6) L’aumento del numero di civili uccisi nel 2008, i cosiddetti “danni collaterali”, del 40% rispetto all’anno precedente, secondo l’“Annual Report of Protection on Civilian in Armed Conflict”, pubblicato alla fine di gennaio dalle Nazioni Unite. Dai 1523 morti del 2007, siamo passati ai 2118 dell’anno scorso, fatto che come si può facilmente capire implica tre constatazioni: la recrudescenza dei combattimenti, l’imprecisione alleata, segno di difficoltà sul terreno anche a causa dell’uso massiccio dei droni, aerei senza pilota che possono arrivare dove la fanteria non può, con la conseguenza di far aumentare la diffidenza degli afghani nei confronti degli eserciti stranieri.
Anche in Afghanistan, come in Iraq, errori strategici si sono assommati a quelli militari che hanno fatto sì che siano passati otto lunghi anni senza venire a capo di quell’insorgenza. Ora, con la situazione un po’ più tranquilla in Iraq, Obama, contrario al surge di allora, è costretto ad affidarsi agli stessi attori, come il Generale Petraeus, e agli stessi metodi. Qui, a differenza dell’Iraq, non è però in corso una guerra civile. In Afghanistan un governo centrale, da sempre debole, si trova a dover fronteggiare i signori della guerra di etnia Pashtun alleati con entità che vanno sotto, per comodità e pigrizia giornalistica, l’unica etichetta di “talebani”, ma solo una parte minoritaria è erede del Mullah Omar, gli altri sono fondamentalisti religiosi a vario titolo indipendentisti, ma tutti aiutati dalle cellule di Al Qaida.
La risposta di inviare da parte della amministrazione americana ulteriori 17.000 soldati, che vanno ad aggiungersi ai 38.000 già presenti ed ai 32.000 uomini dei contingenti alleati, è solo uno dei punti del nuovo piano ancora in fase di elaborazione.
Per vincere, gli USA devono passare da una strategia di caccia ai “bad boys” ad una, sull’esempio iracheno, che scelga di mettere in primo piano la garanzia della vita e della sicurezza degli afghani soprattutto nei villaggi e non solo nei grandi centri. Fondamentale sarà poi cercare l’amicizia e l’alleanza delle forze tribali locali più lontane da Al Qaida, anche se sono talebani, come ha fatto Petraeus in Iraq mettendo sul libro paga i sunniti filo Saddam. E, insomma, è arrivata l’ora di passare all’uso della “carota”, di rendere più precise le azioni militari, di controllare meglio il territorio con più truppe dislocate in modo continuo su tutto il paese. Se per uccidere qualche terrorista con un raid aereo, devono morire famiglie di civili, come è successo una settimana fa nella provincia di Herat dove durante un bombardamento sono stati uccisi tre talebani e 13 civili, il gioco non vale la candela. Anzi: per ogni innocente ucciso, gli insorgenti sono sicuri di poter reclutare nuovi adepti. E in più sollevando le proteste pubbliche anche dell’alleato presidente Kharzai.
Gli Stati Uniti e la NATO in Afghanistan si trovano quindi a combattere sia l’offensiva talebana che la perdita di credibilità tra l’opinione pubblica. Se non viene rovesciata la percezione attuale della popolazione secondo cui l’invio di maggiori truppe vuol dire un’escalation di attentati kamikaze da parte di Al Qaida e i suo alleati, la situazione si potrebbe fare insostenibile e molti afgani potrebbero preferire la strada della trattativa con le forze nemiche, come ha fatto il Pakistan nell’area tribale della valle dello Swat.
Il Presidente ha risposto con un primo invio di truppe, ma più soldati senza una nuova strategia significano poco, e così ha iniziato a muoversi anche su questo secondo fronte creando una nuova task force formata da Bruce Riedel, ex ufficiale della CIA (si veda il suo articolo su Foreign Affairs di maggio-giugno 2007), Richard Holbrooke e dal sottosegretario alla difesa Michele Flourny, che risponde direttamente al consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale James Jones, già generale a quattro stelle dei marines. E le forze armate hanno prodotto il 15 gennaio i nuovi “Concetti cardine per le operazioni congiunte”: mettere in sicurezza la popolazione, addestrare truppe e milizie locali, assicurare i servizi, rafforzare le istituzioni (ma notevole è lo sforzo teorico a livello di contro-insorgenza degli USA: sempre a gennaio è uscita anche “La guida alla contro-insorgenza” del governo americano). Nel corrotto Afghanistan, tutto questo, come sottolinea l’esperto in contro-insorgenza David Kilcullen in un’intervista a Trudy Rubin il 22 febbraio su Philly.Com, significa concentrare tutti gli sforzi a livello locale senza passare per il governo centrale.
Ma mettere in sicurezza l’Afghanistan è solo metà dell’opera, conditio sine qua non per evitare che, il vero problema, il Pakistan, uno stato con 173 milioni di persone, 100 testate nucleari ed un esercito enorme e spropositato – il settimo del mondo – collassi, rendendo possibile all’avvoltoio Osama Bin Laden, ben introdotto nei servizi segreti pakistani, di raccogliere le spoglie del paese.