Vir o Napule quant’è bello

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Vir o Napule quant’è bello

11 Giugno 2007

Ai supporters del Napoli molto è sempre toccato supportare e (soprattutto) moltissimo sopportare. Ad esempio, domenica mattina al Circolo Tennis nessuno si era risparmiato in sarcasmi su quei consoci che il pomeriggio in televisione a Federer–Nadal avrebbero preferito Genoa-Napoli; non senza impietose diagnosi di “malattia inguaribile” o comunque di “tossicodipendenza autentica”. Il fatto è che l’amore per il Napoli è un sentimento antico che è sempre moderno, magari tutt’altro che corrisposto, come si addice al vero amore e come è stato in tutti questi anni di C e di B. Sono anni, ormai, alle nostre spalle e, quindi, da domenica alle 17,  in alto i cuori, in alto le teste, bando a quel senso di frustrazione e di malinconia esistenziale che si accompagna al sentirsi esclusi dalle vicende e dai risultati della serie A, privati del diritto alla domenica, ghettizzati nel proprio sabato e, ovviamente, senza la minima prospettiva internazionalistica da leoni del mercoledì sera.

Certo, al sentimento del Napoli non è estranea, se non qualche malinconia esistenziale, una tenace ansia di continuità con le generazioni che in quel sentimento ci hanno preceduto. Ad esempio, quando nel 1987 il Napoli vinse lo scudetto, al cimitero di Poggioreale i tifosi esposero un grande striscione che recava scritto  “…che vi siete persi …”. A me capitò allora di pensare come sia mio padre, sia Achille Lauro, non ci fossero più e come, a loro modo, quei tifosi avessero reso onore anche a stagioni, ragioni, esperienze, sofferenze, che fanno dell’attaccamento ad una squadra e ad una maglia qualcosa di non effimero e di non intellettualistico.

Del resto, nel purgatorio degli ultimi anni, a me era venuto abbastanza naturale vedere il sabato le partite del Napoli con Giumba Beliazzi, uno che il Napoli l’aveva scoperto nella Napoli dell’immediato dopoguerra, fra l’Arenaccia e il Vomero, proprio insieme a papà e ai suoi amici. Fra questi c’è ancora, in splendida forma, Antonio Ghirelli che del sentimento del Napoli e del suo storicistico riproporsi, fra corsi e ricorsi, serba operosa coscienza.

Quest’anno, per tornare in A, la squadra era stata costruita su Bucchi e De Zeri. Poi, invece, è stato il vecchio telaio degli uomini che venivano dalla C a trascinarci in A. Fra l’inverno e la primavera, tutto pareva maledettamente difficile. Ma poi la loyalty dell’allenatore ai suoi giocatori e la loro a lui hanno fatto il miracolo.

Esser finalmente stati restituiti alla A, insieme ad altre nobilissime decadute, deve esser vissuto e festeggiato come un “miracolo”. Purché con Edmund Burke e Benedetto Croce non si abbandoni mai la fede nella possibilità di ulteriori miracoli tutti davanti a noi: sempre bellissimi perché sempre inattesi. Amare Maradona significa saper tifare pure per Montervino; aver amato Vinicio significa voler bene anche a Sosa. Questo è il sentimento del Napoli!