Vita, morte e “miracoli”  di un guerrigliero terrorista

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Vita, morte e “miracoli” di un guerrigliero terrorista

31 Maggio 2008

Lo scorso 24 aprile mi trovavo alla Casa de América di Madrid a parlare del ritratto che in un capitolo del mio libro I nomi del male, dedicato a leader, regimi e movimenti del cosiddetto “asse del Male”, avevo fatto del leader delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (Farc), Pedro Antonio Marín, alias Manuel Marulanda Vélez, alias Tirofijo. Con me parlavano l’ex inviato di Le Monde Bertrand de la Grange e l’inviata del País Maite Rico. "L’enigma di Tirofijo" era il titolo. Come nel mio libro, io insistevo molto sul carattere da personaggio di realismo magico, quasi come uno dei protagonisti di Cent’anni di solitudine, di questo ex taglialegna che si era dato alla macchia nel 1948 assieme a 18 cugini, e che ci stava ancora dopo sessant’anni. Il più antico guerrigliero tuttora sulla breccia: "Tirofijo l’eterno guerrigliero", avevo intitolato il capitolo su di lui. De la Grange e Maite Rico ricordarono spesso che avrebbe pure potuto essere già morto senza che la cosa fosse stata comunicata. 

La realtà ci aveva superato: Tirofijo era morto da quasi un mese. Dopo una serie di bombardamenti che lo avevano spinto a scrivere nell’ultimo messaggio di lui conosciuto "ho visto il diavolo senza corna né coda", ma sembra di infarto, tra le braccia di una fidanzata con quasi la metà dei suoi anni. Detta quasi di sfuggita dal ministro della Difesa colombiano Juan Manuel Santos in un’intervista alla rivista Semana, la cosa è stata poi ripetuta in conferenza stampa ufficiale, ammessa dal sito delle Farc, e di nuovo ribadita in conferenza stampa ufficiale. “Quarantotto furono gli uomini/ che diedero vita alle Farc/ nessuno ricco, tutti poveri/ con molto animo per lottare/ Non ebbero altra uscita/ che addentrarsi sui monti/ per salvare la vita/ e non essere vittime dei governanti/ Solo portavano a spalla/ molta polvere e schioppi/ e i principi del comunismo/ Tutti andavano marciando/ e da tutte le parti arrivando/ a combattere la povertà/ con Marulanda alla testa”. Così un inno ricorda la nascita del più antico movimento guerrigliero ancora sulla breccia. Il Marulanda della canzone, in realtà, all’anagrafe faceva Pedro Antonio Marín, ma che tutti chiamavano Tirofijo. Il primo pseudonimo era il nome di un sindacalista ucciso negli anni Cinquanta, che lui assunse per confondere le acque secondo una prassi tipica dei cospiratori del vecchio Comintern. Il secondo, invece, può significare in spagnolo “tiro preciso”, per la sua mira. Ma anche “tiro fisso”, secondo un’altra interpretazione, per il modo in cui “giustiziava” le sue vittime, sparando a ripetizione nello stesso punto. Che è poi una prassi relativamente umana, rispetto a altri metodi di esecuzione delle Farc tipo la famigerata “cravatta”: un taglio in gola per tirarci fuori la lingua… Insomma, un nomignolo da brigante di altri tempi, stile Sciabolone o Fra’ Diavolo. Eroe rivoluzionario o volgare tagliagole? 

Da lui il dubbio rimbalza a tutte le Farc: comunisti fedeli alla causa sovietica anche dopo che l’Urss è scomparsa; ma anche potenza della finanza criminale come poche al mondo. Inizio della militanza armata a parte, di Tirofijo non si sa neanche se sia nato il 13 maggio 1928 o il 12 maggio 1930. E d’altra parte il massimo stratega militare delle Farc Mono (scimmione) Jojoy, di cui pure è incerto se si chiami Victor Julio Suárez Rojas o Jorge Briceño Suárez, non è neanche registrato all’anagrafe, visto che nacque in clandestinità attorno al 1963 da un padre guerrigliero, e in clandestinità ha vissuto tutta la vita, iniziò a combattere attorno ai 12 anni. Di Tirofijo è assodato in compenso il luogo di nascita: nella nazione che prende il nome dal genovese Colombo, un paesino che si chiamava Genova ma che non si trova in riva al mare bensì sulle Ande. In una regione chiamata Quindío, famosa per il caffè che vi si coltiva. Si sa pure che per vivere andava per i boschi a tagliare legnami pregiati che poi rivendeva, e che fece anche il macellaio e il fornaio, finché all’età di 20 o 21 anni prese in mano un fucile. Non lo avrebbe più lasciato per tutto il sessantennio successivo, mentre nel resto del mondo quel blocco comunista alle cui ideologie ancora si richiama sorgeva, si espandeva e moriva. E al suo posto veniva lanciata contro l’Occidente la nuova grande sfida dell’integralismo islamico. 

Ma si diceva appunto che la Colombia è il Paese di Gabriel García Márquez e di Cent’anni di solitudine. Difficile dunque parlare di sessanta anni alla macchia e non pensare al colonnello Aureliano Buendía, che “promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatre imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l’Ordine del merito che gli conferì il presidente della Repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale. L’unica cosa che rimase fu una strada di Macondo intitolata al suo nome. Ciononostante, secondo quanto dichiarò pochi anni prima di morire di vecchiaia, nemmeno questo si aspettava il mattino in cui se ne andò coi suoi ventun uomini per riunirsi alle forze del generale Victorio Medina”.

Non è storia, neanche storia romanzata. Non è romanzo, neanche romanzo storico. È realismo magico: miscuglio tra realtà e fantasia in cui il vero finisce per sembrare falso e il falso sembra invece vero. Aureliano Buendía, in effetti, non è mai esistito. Ma è modellato su Rafael Uribe Uribe e Nicolas Márquez. Il primo, il generale che comandò gli eserciti liberali contro i conservatori durante quella Guerra dei mille giorni che devastò la Colombia tra il 1899 e il 1902; il secondo, colonnello ai suoi ordini, e nonno materno da cui Gabriel García Márquez fu cresciuto nei suoi primi anni di vita, ascoltando il ricordo di quelle gesta. Fu la penultima delle dieci guerre civili che hanno insanguinato il Paese dai tempi dell’indipendenza, facendo degli «atti di terrorismo… il peccato di cui i preti hanno dovuto occuparsi più spesso dietro le grate dei confessionali», secondo l’icastica formula di un giornalista italiano. L’ultima fu quella che iniziò nel 1948, e che non è in pratica mai finita. Primo atto il 9 aprile di quell’anno, appena nove giorni prima delle storiche elezioni che nell’Italia di Don Camillo e Peppone videro la vittoria della Dc di De Gasperi sul Fronte popolare. 

Anche nella Colombia di allora la lotta politica tra liberali e conservatori era una disputa tra anticlericali e clericali, alla Guareschi. Ma lì invece che a cazzotti si procedeva a revolverate, e una revolverata stese appunto in quel giorno Jorge Eliécer Gaitán: leader della sinistra liberale che appariva il sicuro trionfatore delle prossime presidenziali, e che nella sua retorica populista mescolava le suggestioni socialiste a slogan presi di peso da Mussolini, da lui orecchiato quando tra il 1926 e il 1928 si era specializzato in Diritto penale a Roma. «Se avanzo seguitemi, se indietreggio

uccidetemi, se muoio vendicatemi» era una delle frasi ducesche che aveva tradotto in spagnolo. Per vendicarlo il popolo liberale della capitale dopo aver linciato l’assassino scese in piazza, in una sommossa che degenerò in un immane saccheggio, domato dall’esercito al saldo di 2000 morti. Bogotazo fu il termine con cui passò alla storia. Esautorati subito i leader liberali dall’ira popolare, il tremebondo presidente Mariano Ospina Pérez fu a sua volta messo da parte dalla moglie Bertha, che con una pistola alla cintura sull’abito da sera guidò l’intervento dei militari. Ma repressa nella città, la rivolta riprese nelle campagne, provocando altri 300.000 morti in dieci anni di faide passate alla storia con il nome generico di Violencia. Per risolvere la questione i liberali e un’ala dei conservatori appoggiarono nel 1953 il golpe del generale Gustavo Rojas Pinilla, che cercò di pacificare gli irriducibili avversari con una sua terza via di stampo peronista. Ci riuscì, nel senso che nel 1957 liberali e conservatori si misero sì d’accordo, ma contro di lui, scacciandolo e impegnandosi a governare assieme per i successivi vent’anni. 

Non tutti i guerriglieri liberali però accettarono. Alcuni, perché temevano le vendette di cui avrebbero potuto essere vittime una volta tornati alla vita civile; e in effetti molti di quelli che invece deposero le armi finirono assassinati da amici e parenti delle loro vittime. Altri, perché consideravano l’accordo un tradimento, e una rinuncia agli ideali di rinnovamento sociale e distribuzione delle terre per cui erano stati chiamati a combattere. Altri ancora, forse la maggioranza, semplicemente perché dopo dieci anni alla macchia non sapevano ormai fare nient’altro che i guerriglieri. Portandosi le famiglie al seguito, molti di questi irriducibili iniziarono lunghe marce in stile Mao, che li portarono in remote regioni di montagna e di giungla fino ad allora spopolate. Vi si insediarono e si misero a coltivarle, tenendo in spalla il fucile mentre zappavano e vangavano. Nel frattempo, su questi contadini armati già liberali aveva messo il proprio cappello un fino ad allora asfittico Partito comunista. Quando negli anni Sessanta il governo cercò di recuperare alla sovranità nazionale quelle “repubbliche indipendenti”, i contadini armati resistettero e passarono alla controffensiva, strutturandosi appunto nelle Farc. E le Farc ancora combattono, guidate fino al 26 marzo scorso da quell’erede spirituale di Aureliano Buendía chiamato Tirofijo. Solo che il Rafael Uribe Uribe prototipo del personaggio di García Márquez ha pure un pronipote in carne e ossa, che si chiama Álvaro Uribe Vélez e che è presidente della Colombia dal 2002 dopo essere stato eletto e confermato a stragrande maggioranza proprio per essersi impegnato a sradicare la guerriglia di Tirofijo, con le buone o, preferibilmente, con le cattive. Buendía contro Buendía, appunto alla realismo magico. 

Si può dunque raccontare la vita di Pedro Antonio Marín parafrasando García Márquez. Le foto e i filmati, alcuni dei più recenti sottobraccio a una procace trentasettenne presentata come sua fidanzata, ce lo mostrano con il volto meticcio e gli occhi stretti del contadino colombiano. Una schiena incurvata non si sa se per l’età, per la lunga esposizione alle intemperie o l’abitudine a piegarla sotto le pallottole. Un eloquio agreste, pressoché incomprensibile ai colombiani di città. E quasi sempre in mimetica, stivali e berretto con visiera alla Qui, Quo e Qua del tipo che nell’Esercito italiano chiamano “stupida”. Di famiglia liberale, all’epoca in cui in Colombia le ideologie si passavano di padre in figlio come una religione, alla macchia costituì la sua prima banda armata assieme a diciotto cugini. Ma in questo sessantennio dalla guerriglia a gestione familiare è passato a quella a gestione industriale, alla testa di un esercito di oltre 22.000 uomini, con a disposizione un arsenale che va dai kalashnikov e alle autobombe fino ai mortai artigianali caricati a cilindri di gas. E soprattutto, le Farc sono diventate la prima impresa di Colombia, con un giro d’affari che nel 1999 venne stimato in 2 milioni di dollari al giorno e 685 milioni di dollari all’anno, passati a 1,3 miliardi nel 2007. La Bavaria, prima impresa legale del Paese, all’epoca non arrivava che a 670 milioni, e il reddito pro capite di un colombiano legato alla guerriglia era 52 volte quello di un colombiano che viveva nella legge. 

Nel 1964-70, quando il giro d’affari delle Farc non oltrepassava i 330.000 dollari all’anno, la metà dei loro introiti proveniva dall’estorsione: le vacunas, “pizzi”, imposte a possidenti e imprenditori. Un altro 49 per cento veniva da rapine, e un 1 per cento da sequestri di persona. Ma l’estorsione nei periodi è poi calata fino al 10-15 per cento, e la rapina è infine sparita del tutto. Il sequestro di persona è invece salito all’inizio degli anni 80 fino al 25%, per poi calare dopo il 1985 al 15 per cento, risalire tra il 1995 e il 2000 al 20 per cento, e attestarsi poi tra il 15 e il 15,85 per cento. Il fatto è che per gestire le cose con più calma le Farc avevano incominciato a rivendere le loro “prede” a gruppi di criminali comuni, che pensavano poi a esigere il riscatto. E alla fine queste bande si sono prese in proprio un mercato ufficialmente stimato in oltre 2500 prigionieri ancora sotto sequestro. In compenso, le Farc continuano a detenere 700-800 persone, di cui 44 come strumento di pressione sul governo e per ottenere il rilascio dei loro compagni in galera. La più famosa è un’ex candidata presidenziale, la verde Íngrid Betancourt. Ma ci sono anche politici, militari, cittadini statunitensi. 

Il narcotraffico inizia a fare la sua comparsa dal 1980-85, con un apporto del 15 per cento. Ma diventa importante soprattutto dopo che la guerra alle droghe lanciata dagli Stati Uniti smantella quei cartelli di Medellín e Cali che raccoglievano la coca prodotta in Perú e Bolivia per trasformarla in cocaina in Colombia e poi rivenderla negli Stati Uniti. A quel punto sono le Farc a creare una nuova produzione in Colombia, gestendola in proprio, o più semplicemente offrendo la propria protezione a contadini altrimenti privi di altre entrate remunerative. Sono invece i nuovi cartelli messicani che smerciano questa droga negli Stati Uniti, mentre da Perú e Bolivia nasce la nuova rotta che attraverso Brasile e Nigeria finisce in Europa. Va detto che le Farc non trattano solo coca, ma anche papavero da oppio e canapa indiana, sia pure in misura minore. E che pur avendo come proprio interlocutore principale i messicani sono poi entrate in affari con le mafie brasiliane, con cui trattano anche armi. E che non solo le Farc si finanziano con la droga ma anche le Autodifese unite di Colombia (Auc): il fronte delle milizie antiguerriglia, che un po’ sono scappate di mano a quel governo che ne aveva promosso la creazione, un po’ sono state invece utilizzate per un tipo di guerra sporca che esercito e polizia non avrebbero potuto condurre. Per lo meno fino a quando non ha iniziato a chiederne lo smantellamento lo stesso governo di Washington, a sua volta allarmato dalla loro capacità di esportare narcotici. Il governo Uribe è riuscito infine a ottenerne la smobilitazione, anche se con il seguito di una serie di rivelazioni su legami imbarazzanti che hanno gravemente scosso la maggioranza presidenziale, scatenando quello scandalo definito della Parapolitica. 

Dal 35 per cento nel 1985-90 il narcotraffico è poi passato a rappresentare il 55 per cento delle finanze delle Farc nel 1990-95 e il 60 per cento nel 1995-2000, prima di scendere al 49 per cento e 48,78 per cento nei periodi successivi per effetto di una nuova offensiva antinarcos a base di bombardamenti di pesticidi sulle coltivazioni. Ne hanno però risentito anche le colture legali, creando alla lotta contro le Farc problemi di immagine di cui i guerriglieri approfittano. Nel 2007 la droga era di nuovo passata a rappresentare il 78 per cento delle entrate delle Farc, e la cocaina il 50 per cento. Grazie al controllo sul territorio le Farc possono inoltre deviare fondi ufficiali: dal 2 per cento nel 1975-80 al 12 per cento nel 2000-2002, nel periodo in cui in seguito a un tentativo di negoziato di pace il governo aveva loro concesso una “zona di ripiegamento” in Amazzonia grande come la Svizzera e con oltre 100.000 abitanti. Dopo di che, ripresa quell’area dall’esercito, si è scesi al 7,3 per cento. Infine ci sono i redditi derivanti da attività imprenditoriali: clandestine, come il contrabbando di oro e smeraldi estratti illegalmente; ma anche investimenti nell’economia legale. E qui si è passati dal 15 per cento al 48,78, dopo un tetto del 60 per cento. Juvenal Ovidio Ricardo Palmera Pineda, alias Simón Trinidad, il tesoriere delle Farc catturato nel 2004 e oggi detenuto negli Stati Uniti, era in effetti un dirigente di banca, che scappò con la cassa nel 1987 unendosi alla guerriglia. 

Il bello è che già negli anni Sessanta le «contadine» Farc erano considerate fuori moda da una nuova leva di giovani studenti rivoluzionari che si ispiravano alla Rivoluzione cubana e al mito di Che Guevara. Nacque così una pletora di altri gruppi armati: l’Esercito di liberazione nazionale (Eln), fondato dal sacerdote Camilo Torres e di ispirazione castrista; l’Esercito popolare di liberazione (Epl), maoista; il Partito rivoluzionario dei lavoratori (Prt), trotzkista; il Quintín Lame, dal nome di un leader indigeno, e appunto indigenista; l’Autodifesa operaia (Ado), ispirata alle Br italiane; e soprattutto l’M-19, Movimento 19 Aprile, che prendeva il nome dalla data in cui un preteso broglio elettorale aveva privato della vittoria alle presidenziali del 1970 il redivivo generrale Rojas Pinilla, pompato da un impetuoso movimento di protesta nostalgica contro la sclerosi dell’alleanza liberal-conservatrice. Definitosi “il primo movimento rivoluzionario non marxista dell’America latina”, l’M-19 diceva di non praticare una guerriglia ma una “protesta armata”, con gesti simbolici che potrebbero ricordare vagamente quelli che nel contempo in Italia, in un quadro non violento, compiva il Partito radicale. Il loro primo atto, in particolare, fu nel 1974 il furto da un museo della spada dell’eroe nazionale Simón Bolívar. Seguirono nel 1978 lo spettacolare furto di 5000 armi da una caserma attraverso un tunnel, nel 1980 il sequestro di un’ambasciata e nel 1985 un assalto al palazzo di Giustizia. Fautori di una riforma costituzionale e di un “capitalismo democratico”, quelli dell’M-19 si consideravano fuori dal confronto tra le superpotenze. Ma proprio perché “non prendevano soldi né dall’Unione Sovietica e né da Cuba” si ritennero autorizzati ad autofinanziarsi con sequestri di persona, rapine e probabilmente anche con il narcotraffico. Mostrando la strada che poi avrebbero preso le Farc.

Non subito, va detto. Nel 1982 le Farc siglarono anche un accordo di pace, in base al quale presentarono loro liste alle elezioni con il nome di Unione patriottica. Ma i dirigenti di questo movimento furono assassinati in massa, come già era successo a molti guerriglieri smobilitati degli anni Cinquanta, e d’altra parte le Farc avevano fatto quell’intesa senza neanche cessare veramente di combattere, nel timore di vedersi portare via i propri uomini dall’M-19. In compenso, quando nel 1990 fu l’M-19 a concludere un accordo di pace esteso anche a Epl, Prt e Quintín Lame, furono invece Farc ed Eln a restare in guerra. Anche mentre l’M-19 otteneva la maggioranza relativa a una Costituente, scriveva gran parte di una nuova Costituzione, otteneva ministri e sindaci. E pure mentre spariva quel blocco sovietico cui le Farc avevano dichiarato la loro fedeltà. L’unica conseguenza fu, appunto, che finiti gli aiuti del comunismo internazionale gli uomini di Tirofijo iniziarono ad arrangiarsi da soli. Un’occasione fu, come già detto, la fine dei cartelli della coca apolitici. Un’altra lo scandalo che travolse il liberale Ernesto Samper Pizano: presidente dal 1994 al 1998, finito nella lista nera Usa per i finanziamenti del cartello di Cali arrivati alla sua campagna elettorale. Privato dei fondamentali aiuti da Washington, l’esercito colombiano si trovò costretto sulla difensiva, mentre le Farc tentavano addirittura l’assalto a Bogotá. Nel 1998 fu eletto allora il conservatore Andrés Pastrana, su una piattaforma di trattativa con la guerriglia per cui si offrì come mediatore anche Gabriel García Márquez. Alle Farc fu dunque offerta la già citata “zona di ripiegamento”, dove il presidente si recò in aereo, sbarcò e abbracciò Tirofijo, mentre i guerriglieri gli presentavano le armi. La stessa Washington acconsentiva, dopo un incontro tra emissari della Cia e delle Farc in Costa Rica.

Ma l’Eln continuava a combattere, le Auc anche, le Farc accusavano il governo degli attacchi di questi ultimi, e loro stessi continuavano a compiere varie azioni. Alcune delle quali particolarmente odiose, come l’assassinio di tre indigenisti statunitensi che si erano recati in Colombia ad aiutare una tribù india in lotta contro una multinazionale petrolifera. La ragione, poi, per cui gli americani tolsero il loro appoggio al processo di pace. Alla fine, dopo una spettacolare ondata di sequestri eccellenti, anche Pastrana interruppe il dialogo. E dopo di lui fu eletto Álvaro Uribe Vélez: liberale dissidente in rotta con il suo partito, con qualche legame imbarazzante con le Auc, e su una base di linea dura contro le Farc. Che gli ha portato voti a valanga. Disillusa dal processo di pace di Pastrana, l’opinione pubblica colombiana è in gran parte esasperata contro una guerriglia che, sequestri e narcotraffico a parte, ha tenuto una condotta via via sempre più criminale. L’uccisione di ostaggi. I rapimenti di massa di fedeli in chiesa. I bombardamenti a colpi di mortai su numerose chiese. Gli avvelenamenti di acquedotti. Le trappole esplosive su cadaveri, spesso uccisi apposta. L’uso di mine antiuomo. L’arruolamento forzato di bambini e bambine, queste ultime costrette a mettere la spirale per servire da sfogo sessuale dei compagni di lotta. E anche, di recente, una guerra di sterminio condotta contro il più debole Eln, colpevole di aver iniziato un negoziato di pace per conto proprio. Lo scorso 18 luglio un raid contro un accampamento delle Farc nella selva fa cadere in mano alle forze dell’ordine il diario di una ragazza olandese di 29 anni che si è arruolata nelle Farc per romantica simpatia ideologica da terzomondista europea. E vi si leggono righe di una delusione rivelatrice. “Che tipo di organizzazione è questa, dove alcuni hanno soldi, sigarette e dolci e gli altri devono mendicare?”. “Ho chiamato a casa. Mamma ha pianto e papà pure. Ora posso solo aspettare il mio castigo. A tutti si permette di chiamare meno che a me. Non è ridicolo? Forse mi lasceranno nella selva per sempre, o forse non mi permetteranno di uscire fuori in missione dopo questo peccato veniale”. “Ci sono due compagni con l’Aids e forse ce ne saranno di più ancora. Qui nessuno usa il preservativo”. Insomma, non ne può più. “Sono stanca, stanca delle Farc, stanca della gente, stanca della vita in comune. Stanca di non poter mai tenere niente per me sola. Ne varrebbe la pena se uno sapesse la ragione per cui si lotta. Ma in realtà io non ci credo più”. “Oggi c’è festa. Naturalmente, i comandanti e le loro mogli hanno avuto la loro festa privata. Agli altri, alla truppa, a quelli di basso rango, si permetterà di terminare i rinfreschi che a loro sono avanzati. Come sarà quando arriveremo al potere? Le donne dei comandanti in Ferrari, con seni al silicone, mangiando caviale? Così sembra”. 

Questo, certo, senza dimenticare che la Colombia è un Paese dove di violazioni dei diritti umani ne sono state compiute massicciamente un po’ da tutti. Eppure, proprio questa particolare combinazione tra debolezza politica e forza militare spiega la continuità delle Farc. Che come partito legale non prenderebbero più del 5 per cento dei voti, ma che come gruppo armato è appunto uno dei primi eserciti clandestini del mondo e la prima “impresa” della Colombia. Alla fine, però, proprio questa ostinata sordità alla stanchezza dell’opinione pubblica comincia a rappresentare un pericoloso tallone d’Achille. “L’opinione pubblica è manipolata dalla stampa”, è il monotono ritornello con cui Farc e simpatizzanti commentano lo spettacolo delle milioni di persone che scendono in piazza per protestare contro di loro. Inoltre, c’è il mutato contesto latino-americano. Apparentemente, l’ascesa di Chávez li rafforza, permettendo di avere un governo amico al confine. Sostituiscono dunque il vecchio mito moscovita con quello della Repubblica Bolivariana, che proclamano come loro modello e a cui offrono pubblicamente il loro aiuto in caso di “aggressione degli Stati Uniti”. Ma proprio il successo elettorale di Chávez e di altri leader di sinistra dimostra l’inutilità della lotta armata, nel momento in cui i rivoluzionari possono andare al potere per via pacifica. Anzi, le Farc hanno addirittura un effetto controproducente: in una regione che va tutta a sinistra, la Colombia di Uribe resta un’isola di destra proprio per effetto del discredito che sulla sinistra getta il terrorismo delle Farc. 

E c’è poi il brasiliano Lula, cui le Farc pestano i piedi con gli scambi droga-armi che fanno con le bande di narcos che insanguinano le favelas di San Paolo e Rio de Janeiro, e che esasperato acconsente a vendere a Uribe i terribili aerei da attacco al suolo Supertucán, rifornibili in volo. È quella la grande svolta. Sono i Supertucán, tra l’altro, che il primo marzo uccidono in Ecuador il numero due delle Farc Luis Edgar Devia Silva “Raúl Reyes”, marito di una figlia di Tirofijo: uno dei sette figli che l’ex taglialegna ha avuto da varie donne nei suoi sessant’anni nella selva. E addosso a lui trovano tre laptop con una massa enorme di dati, che permettono di dare al conflitto una seconda svolta. Sempre più col fiato sul collo in Colombia, ridotti da perdite a diserzioni a meno di 8000 uomini, le Farc avevano cercato di contrattaccare internazionalizzando il conflitto, in modo che governi e lobby amiche potessero intervenire a fermare le offensive di Uribe. E la loro grande arma erano stati gli ostaggi, di cui avevano iniziato un rilascio centellinato all’amico Chávez, a sua volta interessato a risollevare un po’ il proprio prestigio dopo la clamorosa sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di farsi rieleggere a ripetizione. Ma gli imbarazzanti contatti che emergono dai laptop di Reyes fermano a loro volta Chávez, e screditano quelle opposizioni colombiane che già stavano operando sullo scandalo della Parapolitica per mettere Uribe in ginocchio. È lo scandalo della Farcpolitica, cui si aggiunge la rivelazione della morte di Tirofijo proprio mentre Uribe ha in corso una raccolta di firme per cambiare a sua volta la Costituzione con un referendum, e potersi far rieleggere una terza volta. Le firme stanno arrivando a valanga, e l’opinione pubblica dai sondaggi risulta a lui favorevole con percentuali quasi bulgare. Erede di Tirofijo alla testa delle Farc, comunque, è stato designato non il militarista numero tre Mono Jojoy ma Guillermo León Sáenz “Alfonso Cano”: un intellettuale di buona famiglia, già studente di antropologia e con fama di ideologo. Sembra già una piccola svolta, anche se in realtà l’auspicata liberazione di Íngrid Betancourt e degli altri ostaggi è ancora ben lontana.    

M. Stefanini, I nomi del male, Boroli, 2007, p. 187.