
Viva Veltrusconi!

14 Febbraio 2008
Parafrasando una vecchia canzone del grande Lucio Battisti potremmo dire che la campagna elettorale in corso ci sta procurando una sensazione di leggera follia. In effetti, occorre riconoscere che l’attuale fase della politica italiana non sarà forse un granché i termini di output (anche se non riusciamo a provare alcuna nostalgia per gli output che produceva la prima repubblica negli ultimi vent’anni della sua esistenza), ma è almeno avvincente, a tratti addirittura divertente.
Dopo aver rischiato di cadere in uno stato depressivo dovuto alla sostanziale incapacità dell’italico sistema politico di rinnovarsi adeguandosi alle domande provenienti dai consumatori della politica (ovvero gli elettori), assistiamo oggi ad un profondo sommovimento che potrebbe modificare radicalmente il panorama politico italiano. Nel giro di qualche mese potremmo addirittura trovarci di fronte ad un Parlamento nel quale siano assenti, o comunque ridotti in condizioni di non nuocere, gli epigoni delle tre grandi famiglie politiche che, in misura, modi e con responsabilità assai diverse, negli ultimi trent’anni hanno paralizzato l’Italia: comunisti, fascisti e democristiani. Troppa grazia, troppo bello per essere vero.
Forse, a quasi 150 anni dalla breccia di Porta Pia, a 87 dalla scissione di Livorno, a 86 anni dalla marcia su Roma, l’Italia potrebbe finalmente diventare un paese normale (tanto per rendere omaggio alla Walterone nazionale), nel quale nell’agone parlamentare si confrontano un grande partito socialdemocratico-riformista ed un grande partito popolare-liberale-conservatore. Un Paese nel quale non vi sarà più spazio per i cantori della specificità italiana, che rendeva il nostro Paese diverso (e peggiore) rispetto a tutte le altre democrazie occidentali.
Se “Veltrusconi” riusciranno nell’impresa si saranno meritati la gloria eterna e sarò pronto a rimangiarmi le espressioni di dileggio e di sfiducia che proprio qualche mese avevamo rivolto a Uolter fresco leader del nascente Partito democratico. Naturalmente siamo ben consapevoli delle numerose ombre sull’intera operazione: basti pensare al fresco ma già maleodorante accordo con la falange giustizialista di Di Pietro. Ma saremmo ben lieti di sorvolare su tali imperfezioni se la strategia, o meglio quella che noi speriamo sia la strategia, dei due lìder màximi avrà successo.
Tale sensazione di euforia non è del resto minimamente scalfita dalle obiezioni degli innumerevoli saggi che affollano il dibattito pubblico e che mettono in guardia le nostre coscienze: attenzione si tratta di semplice pubblicità, di una mera operazione di marketing o di packaging di un prodotto vecchio che non incontrava più il gusto dei consumatori. Svolte le elezioni i due grandi contenitori non potranno che rompersi e ricomincerà la sindrome frammentazione – conflittualità – incapacità decisionale che ha caratterizzato gli ultimi 15 anni di storia italiana. L’obiezione non ci convince affatto: sarà forse per ottimismo della volontà, sarà perché non abbiamo quei robusti interessi personali che normalmente spingono i saggi ad essere molto prudenti di fronte alle svolte storiche (nel timore che la svolta fallisca e che si debba continuare a fare i conti con chi pareva destinato al declino).
Non ci convince per due motivi. Dal punto d vista teorico, da autentici liberali, riteniamo che la pubblicità ed il marketing svolgano un ruolo positivo nel funzionamento del mercato. Come gli economisti di scuola austriaca ben sanno, la pubblicità non è affatto un’attività dirette ad abbindolare i poveri consumatori ma è, piuttosto, uno strumento per avvicinare la produzione del mercato alle preferenze dei consumatori. Meccanismi per accelerare e migliorare la dinamica della concorrenza. Non è la pubblicità che induce il bisogno del mercato ma è il bisogno del mercato che induce la pubblicità
E non ci convince anche per ragion strutturali. A nostro avviso l’attuale frammentazione e litigiosità del quadro politico non corrisponde affatto ad elementi strutturali dell’opinione pubblica. Ai 15 gruppi (o sottogruppi) parlamentari della camera ed ai 17 del Senato non corrispondono affatto altrettante identità politiche forti irriducibili sotto un’unica bandiera. Sono piuttosto il frutto di meccanismi elettorali e regolamentari che hanno reso conveniente la moltiplicazione delle sigle. E sono il frutto di strategie politiche miopi che hanno privilegiato un successo sicuro anche se inutile nel breve periodo rispetto all’assunzione dei rischi inevitabilmente connessi alle strategie più orientate al medio periodo ed all’effettività del successo. Si aggiunga che l’odio per l’avversario e la sua completa delegittimazione hanno reso impraticabile in questi anni ogni tentativo di conferire maggiore autorevolezza e maggiore serenità al confronto politico.
Ma la rumorosa caduta del Governo Prodi ha fatto il miracolo: di fronte all’ineluttabilità delle prospettive di sconfitta Veltroni ha provato a sparigliare il gioco ed ha innestato una reazione a catena dalle conseguenze imprevedibili, ma che potrebbero essere assai positive.
Certo rimane il dubbio. Anche ammettendo che il tentativo vada in porto, riuscirà il nuovo equilibrio a consolidarsi? Anche in questo caso vi sono alcuni elementi rassicuranti. Se è vero come a noi pare che moltiplicazione delle sigle non corrisponde ad una strutturale frammentazione dell’opinione pubblica è ragionevole ritenere che la confluenza di più soggetti in un’unica lista possa avviare un processo virtuoso di semplificazione reale dell’offerta politica. La rissosità delle coalizioni della seconda repubblica era dovuta da un lato alla mancanza di coraggio dei suoi leader e dall’altro a meccanismi elettorali che obbligavano i partiti minori a non essere del tutto leali con gli alleati. Un piccolo partito costretto ad allearsi ed insieme a contarsi non può – pena la sua stessa sopravvivenza – fare a meno di differenziarsi per quanto possibile dagli alleati maggiori. Se si appiattisce su questi alla fine l’elettore voterà per i partiti più grandi!
Un’ultima notazione riguarda lo specifico psicodramma di queste ore che riguarda l’UDC. Se, come le voci dell’ultima’ora lasciano supporre, deciderà di correre da sola staccandosi dal Popolo della libertà ciò forse da un lato renderà più incerta la tenzone elettorale ma dall’altro accelererà ulteriormente la dinamica di semplificazione del quadro politico in corso. Peraltro, non possiamo fare a meno di notare come, al nostro sguardo di osservatori dilettanti dei fatti della politica, l’intera vicenda appaia surreale. Apparentemente chi doveva essere veramente interessato alla nascita di un unico grande partito dei moderati sarebbe dovuto essere proprio Pier Ferdinando Casini, leader di grande fascino e capacità comunicativa ma con un esercito piccolo ed abbastanza scalcagnato (soprattutto dopo l’addio di Giovanardi, Baccini e Tabacci). Fuso in un grande contenitore Casini, ed i migliori fra i dirigenti dell’UDC, avrebbero la possibilità di giocare a tutto campo la partita per la leadership dei moderati in Italia. Avrebbero la possibilità di far confluire definitivamente la tradizione politica democristiana che ha comunque garantito quaranta anni di libertà, di democrazia e di benessere al nostro Paese nell’ambito delle identità politiche che si stanno strutturando nella seconda repubblica. Del resto nell’estate del 2005 pareva esserne convinto per primo Casini protagonista di un tentativo fallito di dar vita al partito unitario del centro-destra.
E’ proprio sicuro Casini che convenga a lui ed al Paese mantenere lo scudo crociato sulla scheda per raccattare un misero 5% con cui confrontarsi con un alleato quasi dieci volte più grande? Più che frutto di una strategia politica la scelta dell’UDC (sempre che alla fine questa sia la scelta) sembra il prodotto di una dinamica psicologica, quasi l’attaccamento ad una coperta di Linus che ci da una sensazione di sicurezza nel momento in cui dobbiamo cominciare a navigare in mare aperto.
E’ proprio sicuro il direttore dell’Avvenire che questo sia utile a testimoniare la presenza dei cattolici in politica o che non così non si rischi piuttosto la definitiva certificazione del carattere minoritario, quasi di nicchia della cultura politica cattolica in Italia? Abbiamo salutato con favore la nuova strategia del Vaticano che negli ultimi anni ha rinunciato a svolgere attivo nella concreta dinamica dei rapporti interni al sistema politico italiano, per rafforzare la sua presenza sui grandi temi del dibattito pubblico (aborto, eutanasia, biogenetica, coppie di fatto). Tornare ad occuparsi dei simboli presenti sulla scheda elettorale rischia – questo si – essere il ritorno ad una tradizione neoguelfa della quale non si sente francamente il bisogno. Semmai ci sarebbe piaciuto sentire anche in questo caso levarsi alte e ferme le voci delll’intellighentia laica di casa nostra. Ma evidentemente l’antiberlusconismo di Scalfari, Odifreddi & co. è più forte del loro laicismo e del loro anticlericalismo.