Volubili, disfattisti e confusi, praticamente italiani

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Volubili, disfattisti e confusi, praticamente italiani

07 Ottobre 2007

Nel suo ultimo libro, L’italiano (Einaudi, 2007), Sebastiano Vassalli immagina il giorno del Giudizio Universale in cui Dio convoca un uomo in rappresentanza di ogni nazionalità. Ad un certo punto “Dio chiamò l’Italiano, ma non ebbe risposta. […] Tornò a chiamarlo. Allora l’Italiano, vedendo che tutti si erano voltati verso di lui e lo stavano guardando, spalancò gli occhi e si mise una mano sul petto. Domandò: «Chi, io?»”. È questo un comportamento tipicamente italiano? Difficile negarlo…

Amenità a parte, l’ultima fatica di Vassalli prende le mosse da uno dei luoghi comuni che più spesso abbiamo sentito ripetere: l’unica caratteristica comune a tutti gli italiani è che essi non hanno un carattere nazionale che li unisce. Gli italiani non sono una nazione perché “fatta l’Italia, non si sono mai fatti gli italiani”, si potrebbe dire parafrasando Massimo d’Azeglio. Ma sarà poi vero? Ciascun popolo ha dai caratteri specifici, solo che nel caso italiano, essendo più difficile scovarli e definirli, si è sempre preferito la tesi, troppo semplicistica, dell’assenza di un carattere nazionale. Del resto – a riprova di quanto sia difficile sostenerlo veramente – quando siamo all’estero i nostri connazionali li riconosciamo subito senza possibilità d’errore, quindi…

Secondo David Bidussa, curatore di Siamo italiani (Chiarelettere), la nostra identità coinciderebbe con l’antipolitica “intesa come indisponibilità a riflettere in nome di un interesse generale” …si vede che non ha mai avuto occasione di conversare con un americano della middle-class!! L’affermazione è certamente esagerata, e dà il destro per rilevare che una nostra tendenza è quella di ingigantire i nostri difetti, pensando che il resto del mondo sia una sorta di Eden virtuoso. Ben più acutamente, Francesco Cossiga, autore del recente Italiani sono sempre gli altri (Mondadori) osserva che “come Stato nazionale siamo nati con un peccato originale per il quale non è previsto il battesimo: la scomunica” della Chiesa cattolica.

Ma, al di là di queste annotazioni, se la principale caratteristica italiana – e qui torniamo ancora a Vassalli e ai recenti fatti di cronaca – fosse proprio quella del disfattismo populista, inteso come attitudine a sfasciare tutto con troppa facilità per mettersi nella mani del primo avventuriero d’occasione? Salutare l’uomo della Provvidenza in preda a facili enfatuazioni, salvo poi voltargli le spalle alla prima occasione. La confusa volubilità della nostra opinione pubblica è, di certo, una caratteristica del Bel paese. Perché mai?

Questa annotazione ci introduce ad un tema molto delicato, che è quello del rapporto che gli italiani hanno, ed hanno avuto, con la propria classe dirigente. Cercando di riflettere sul nostro passato potremmo dire che è storia vecchia, purtroppo, l’incapacità dei partiti (sia di governo che d’opposizione) di dare risposte convincenti ai problemi più gravi che attanagliano il paese, perché non c’è alcuna attitudine da parte del ceto politico a mettere in opera le soluzioni che, a parole, tutti ritengono indispensabili, forse per la paura che qualcuno, più di altri, se ne possa avvantaggiare (siamo il paese in cui ognuno bada unicamente al “suo particolare”, come diceva Guicciardini). Questo fenomeno, oggettivamente penalizzante, ha creato una cultura diffusa che riconosce poca affidabilità a chi governa, con la pericolosa tendenza, di converso, ad assegnare facili credenziali a chi non fa altro che inneggiare al disfattismo. L’ultimo esempio è ovviamente quello di Grillo.

Rispetto ai problemi endemici della nostra politica, dalla metà degli anni Novanta si è verificata la novità decisiva della reale alternanza al potere, con la possibilità di identificare con maggior chiarezza le responsabilità politiche: chi governa prende delle decisioni, di cui risponde; chi sta all’opposizione critica e propone soluzioni alternative. Gli elettori poi decidono chi è più convincente e credibile. Ma perché le cose ancora non funzionano, perché, nonostante la normalizzazione ed il superamento del “sistema bloccato” che teneva la DC e i suoi alleati costantemente al potere, ancora non è migliorato il rapporto che gli italiani hanno con la politica e con chi li governa?

Questo è il punto. In altre parole, cosa non ha funzionato del bipolarismo nostrano? In primo luogo chi governa non ha la possibilità di farlo realmente, perché non ha la capacità decisionale che ciò richiede.  Non solo per problemi tecnici, ma pure per l’eccessiva frammentazione del quadro politico, con l’insistenza di troppi attori dotati di potere di veto. In secondo luogo, dopo una prima stagione di rinnovamento all’esordio del bipolarismo, la classe politica è ritornata a fossilizzarsi, specialmente a sinistra, come ha spiegato molto bene Andrea Romano nel suo I compagni di scuola (Mondadori) e come sta confermando in modo imbarazzante lo ‘statu nascendi’ del Partito democratico. Infine il bipolarismo ha coinciso, non solo con una serie di iniziative politiche volte a ridefinire gli schieramenti in campo, ma anche con una tendenza alla delegittimazione degli avversari alimentata da una costante rissosità verbale che, alle fine, impedisce oneste assunzioni di responsabilità sul versante delle riforme, dal federalismo al mercato del lavoro (per non dire della legge elettorale), di cui il paese ha bisogno come l’aria.

E così il Grillo di turno diventa un fenomeno mediatico e politico e di colpo acquisisce un consenso, reale o potenziale, che dovrebbe inquietare chi in Italia ancora crede nella democrazia.