Voto in Alabama, brutto colpo per Trump ma la partita non è persa
13 Dicembre 2017
La sconfitta dell’Alabama è molto pesante per Trump. I prossimi mesi decideranno se è decisiva. Grande festa al New York Times, di cui riportiamo alcune “opinioni” uscite a caldo dopo la vittoria del democratico Doug Jones e la sconfitta del contestato candidato repubblicano Roj Moore. In Alabama Donald Trump aveva superato di ventotto punti di vantaggio Hillary Clinton, Jones vince di poco più di un punto in percentuale su Moore. “A triumph for decency and common sense in a state that seemed for a time at risk of abandoning both, Mr. Jones’s win narrows the Republicans’ Senate majority and delivers a deeply deserved rebuke to President Trump”. L’editoriale della direzione del New York Times parla di una vittoria della decenza e del senso comune.
“In one of the strange rhymes that history favors, nearly eight years after Barack Obama’s Democrats managed the extraordinary feat of losing a senate race in Massachusetts, Donald Trump’s Republicans have matched the feat by losing a senate seat in Alabama”. Con uno degli strani contrappunti che la storia favorisce, Barack Obama aveva perso uno stato storico dei democratici, il Massachussets, e Donal Trump perde l’Alabama, scrive il commentatore conservatore del Times Ross Douthat
“We saw decency in retreat. We saw common sense in decline. We saw a clique of unabashed plutocrats, Trump foremost among them, brazenly treating the federal government as a branding opportunity or a trough at which they could gorge. We saw a potent strain of authoritarianism jousting with the rule of law”. Vedevamo la decenza in ritirata, il senso comune in declino, una cricca di sfrontati plutocrati usare il governo come un trugolo per i propri interessi, un autoritarismo in marcia che si beffava dello stato di diritto, scrive Frank Bruni.
“The president and his former grand strategist threw considerable weight behind Roy Moore, the polarizing Republican Senate candidate in Alabama. For the second time this year, the state that gave Mr. Trump crucial early support during the presidential campaign — and his first senatorial endorsment — has rejected the candidate Mr. Trump endorsed for the Senate”. L’Alabama è una sconfitta per Steve Bannon e a seguire di Trump che prima aveva appoggiato un altro candidato contro Moore nelle primarie repubblicane e poi ha sostenuto il giudice sconfitto, scrive Quin Hillyer.
Nel giorno di un’importante vittoria campale quello che è il fulcro dell’opposizione al trumpismo, il quotidiano liberal newyorkese, affiancato da un Washington Post più scatenato anche a protezione degli interessi di Jeff Bezos, e da una CNN più pervasiva grazie all’influenza del mezzo televisivo, segna le linee del prossimo scontro: se lo slogan fondamentale delle prossime battaglie sarà quello dello scontro tra “decenza e trugolo”, poi bisognerà tenere la mente fredda sulla tattica. Anche Obama perse il Massuchessets, si ricorda. L’importante è buttare definitivamente nel cestino Bannon, si rammenta ancora. Insomma l’occhio nero fatto a Trump non ha deciso ancora la partita.
L’Alabama insegna come questa partita sarà giocata. Innanzi tutto cercando di disgregare la società americana: neri contro bianchi, donne contro maschi, globalismi contro interessi nazionali, welfare contro taglio alle tasse, antirussi contro servi dei russi, antirazzisti contro chi è preoccupato dal fondamentalismo islamico, amici del Pianeta contro minatori. Moore era un candidato bislacco, oltre che divisivo: aveva fatto bene Trump a prenderne le distanze e ad appoggiare un repubblicano più politicamente razionale. Ma l’agguato combinato all’ex giudice dell’Alabama dal Washington Post su fatti, non più penalmente rilevanti, che sarebbero avvenuti 40 anni prima e la cui assoluta veridicità è stata peraltro compromessa da tutta una serie di imbrogli, svela la trama disgregativa della discussione pubblica, foriera, se non superata, di nefaste conseguenze. La principale tra queste è che i media che stanno raggruppando e sostenendo i democratici non hanno un’idea di come unificare in positivo le forze che riescono a mobilitare: il vecchio centrismo liberal di casa Clinton non funziona più (lo spiega il loro principale sponsor: la Goldman Sachs), il soft power obamiano (più il quantitative easing di Janet Yellen) si è inceppato di fronte all’hard power commerciale e militare cinese (più Corea del Nord) e iraniano, senza parlare della stupidaggine fatta per avidità (quelli che volevano fare affari in terre influenzate da Mosca) e arroganza (il fastidio di Barack Obama perché la Russia non seguiva la sua insensata politica estera, e il susseguente desiderio di umiliarla). E di fronte al fatto che la politica di espansione monetaria ha raggiunto i suoi limiti. Né il supermercato carolingio franco-tedesco offre serie strategie alternative per assestare gli equilibri globali.
Questa è la situazione. Se prevarrà uno scenario Nixon ‘74, con gli Stati Uniti allo sbando per almeno sette anni, non so quali equilibri il mondo potrà trovare. A chi ha fede, non resterà che pregare. Però non sempre le battaglie perse non consentono di raddrizzare la rotta. Io credo che Donald Trump abbia fatto bene a tenere un rapporto, anche contro l’establishment repubblicano, con l’ala radicale bannonista. In un mondo e in un’America così disgregata, disgregare ulteriormente è la via per il disastro. Il sacrificio dell’Alabama repubblicana non sarà stato inutile se servirà a rimettere su basi razionali la discussione nel Grand old party, come sembra di cogliere dalle ultime discussioni sul piano per tagliare le tasse. Intanto quello che è uno dei migliori intellettuali dell’amministrazione Trump, H.R. Mc Master ha messo a punto un documento sulle strategie per la sicurezza nazionale criticato dai liberal perché è poco idealistico, ma di cui si riconosce il realismo, oggi la cosa più necessaria. Mentre un’altra mente di qualità Robert Lighthizer sta imponendo una discussione sulle regole commerciali che passi dalle furbate (travestite da utopie sovranazionali) ad accordi fondati anch’essi sulla realtà effettuale delle cose.
Forse lo special counsel Robert Mueller consentirà poi, così auspica il capo del tema dei legali di Trump, Ty Cobb, agli Stati Uniti di concentrarsi sulla politica estera necessaria (che, come è evidente anche ai più miopi, richiede innanzi tutto un nuovo dialogo con Mosca) anche per superare tutti i pasticci politicamente faziosi consumati all’interno del Bureau.
C’è infine il fronte “femminile”. Trump si deve rendere conto, come mi pare abbiano cercato di spiegargli la splendida Nikki Halley e forse la strategica Dina Powell, e, pur con molta ostilità, anche la già fantastica Condoleeza Rice, che la storia del costume sta facendo un balzo in avanti nell’affermazione della difesa della dignità femminile e che certi stupidi scherzi con magari annesse moralmente intollerabili porcate, non sono oggi più ammissibili. E se forse su questi argomenti Ivanka gli bloccasse ogni tanto il dito che tweetta, le cose potrebbero andare meglio.
La situazione. Vista da Bruxelles, Parigi, Berlino. E vista da Roma. “Vista da Bruxelles, da Parigi e da Berlino, la situazione del Paese è allarmante. I sondaggi danno per vincente la coalizione di centrodestra guidata da un Berlusconi che, occorre ricordarselo, venne ‘sfiduciato’ proprio dai leader europei e dalla Bce”. Scrive il 30 novembre Andrea Bonanni sulla Repubblica. Vista da Roma, la situazione di Bruxelles è imbarazzante considerando lo sforzo di protagonismo di Jean-Claude Juncker, che approfitta di vuoto e distrazione generale, e, pur portando a casa qualche risultato positivo (vedi ouverture di trattativa sulla Brexit), è particolarmente velleitario (vedi proposta riforma dell’Unione) nei suoi sforzi, quella di Berlino è confusa, quella di Parigi è in bilico tra proclamato slancio riformista e furbate di Emanuel Macron. Forse stavolta dunque eurocrati, francesi e tedeschi non troveranno il tempo per sfiduciare con scarso senso liberale e con grande danno per la democrazia italiana, il premier italiano scelto dal voto popolare.
Il (relativamente) antidemagogo Casini. “Un Paese dove la demagogia, e vediamo quello che sta capitando sull’Ilva di Taranto, rischia di prevalere”. Così dice Perferdinando Casini su Formiche del 3 dicembre. Pierferdy è molto nervoso, il fedele alleato Angelino Alfano si è sciolto, lui stesso (l’ex brillante promessa forlaniana) l’hanno incastrato in questa commissione interparlamentare sulle banche dove il fango (uso un eufemismo per rispetto ai lettori, il termine tecnico è più incisivo) nel ventilatore è in dosi eccessive persino per l’ex genero di Francesco Caltagirone. Huffington Post Italia sostiene, poi, che l’ex ras di Ccd & Udc (quest’ultimo partito sottrattogli dal vivace Lorenzo Cesa) non sia più in buoni rapporti con Matteo Renzi (cioè il suo più recente dante causa). E’ dunque comprensibile che si sfoghi su questioni su cui ritiene di non pagare dazio come il caso Ilva. Se si concentrasse di più però si ricorderebbe che in Puglia al centro del caso Ilva c’è uno degli ultimi alleati di “sinistra” del politico di Rignano.
E’ quasi la fine. Siamo arrivati all’esaltazione di Civati. “Il mio appello è: Giuliano, dove ‘campo’ vai?”. Così ha detto Pippo Civati su Rai news del 3 dicembre. Una battuta carina e profetica su Pisapia anche se prendersela con l’ex sindaco di Milano è come picchiare un bambino che sta facendo la pupù (cosa che mi ripeto ogni volta che indulgo in questo sport e poi ci ricasco come un Civati qualsiasi). Poi ritrovo però tutta la tradizionale profondità del’ex giovane monzese (ora monzese di mezza età) quando sulla Repubblica del 3 dicembre dice: “Laura Boldrini è importante nel nostro progetto “. Non so come, dopo aver letto una frase di questa portata sul giornale da lui stesso fondato, Eugenio Scalfari possa dire, a poche pagine di distanza dall’elogio del boldrinismo, che “Civati sarebbe il migliore di tutti” . Per un momento mi chiedo se De Benedetti non abbia ragione, poi mi riprendo: Carlo De Benedetti non ha mai ragione.