“Whatever it takes” per non chiudere più (di G. Quagliariello)

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“Whatever it takes” per non chiudere più (di G. Quagliariello)

18 Luglio 2021

In una situazione inedita, complessa e gravida di implicazioni di varia natura come quella che da un anno e mezzo ha investito il nostro mondo, è un errore nutrirsi di certezze apodittiche e definitive e rinunciare a governare gli eventi prescindendo dalla realtà. E la realtà, in tutte le sue sfumature, al momento di certezze ne offre soltanto due: che il virus è fra noi e bisogna trovare il modo di conviverci, e che le attività economiche non reggerebbero un’altra ondata di chiusure.

Basta allora con il gioco del piccolo virologo o del filosofo della domenica. Nel momento nel quale naviga a vista la stessa comunità scientifica, la politica deve riappropriarsi del compito che le è proprio: acquisire per quanto possibile i doverosi elementi di conoscenza, leggere fatti e dati in base a un criterio di realtà e agire pragmaticamente secondo buon senso.

Proprio per la latitanza del buon senso e del pragmatismo, la discussione che ciclicamente torna a svilupparsi intorno alle misure anti-covid mi appassiona poco. Soprattutto, mi appassionano poco le polarizzazioni estreme fra libertà e sicurezza che nemmeno di fronte alla minaccia del terrorismo islamico furono così assolute. A quel tempo il dibattito fu profondo e articolato. Ci si chiese quale era il livello minimo di sicurezza in nome del quale qualche libertà avrebbe potuto essere sacrificata; quale fosse l’aliquota di libertà irrinunciabile di cui nessuna minaccia avrebbe potuto giustificare la compressione. E paradossalmente, per ragioni tanto contingenti quanto culturali, fra i due estremi gran parte della destra – la stessa che oggi si colloca sul versante opposto – protese decisamente a favore della sicurezza.

Non si tratta oggi di avventurarsi in paragoni impropri. Ma nel momento nel quale si maneggiano materie come la salute delle persone e la sopravvivenza socio-economica di un Paese ogni elemento deve essere ricondotto alla sua dimensione empirica. Perché quando dall’empiria si passa all’assolutismo, si rischia di minare gli stessi valori per i quali si crede di spendersi. Altrimenti avrebbe ragione l’onorevole Zan nel teorizzare la libertà di autopercepirsi uomo o donna a prescindere da ogni dato di natura, fregandosene così delle libertà e dei diritti altrui (quelli delle donne, ad esempio) che ne risultano compressi. E, tornando al nostro tema, sarebbe corretto postulare la libertà assoluta di autodeterminazione senza preoccuparsi delle libertà e dei diritti di chi fra qualche tempo, se la situazione sfugge di mano, potrebbe ritrovarsi con le attività di nuovo chiuse e restrizioni ormai insostenibili.

Io credo che non sia così. Credo che un bilanciamento sia necessario, perseguendo l’obiettivo del massimo grado di libertà possibile nella situazione data proprio al fine di garantire una libertà solida e duratura e non minare la difficile ripartenza del Paese. Sapendo che i vincoli non piacciono a nessuno, ma se con il virus è necessario convivere – e i fatti ci dicono che lo è – l’induzione di atti che ne arginino le conseguenze (i vaccini, ad esempio) serve a scongiurare per un futuro non troppo remoto imposizioni ben più pesanti.

Si potrà e si dovrà discutere sulle soluzioni migliori, ma nel momento nel quale si conduce una sacrosanta battaglia per far sì che le eventuali misure di contenimento non discendano dal computo burocratico dei tamponi positivi ma dalla reale pressione su reparti ospedalieri e terapie intensive – scongiurando così nuove restrizioni che in caso contrario la variante in circolazione renderebbe una minaccia reale –, incentivare in qualche modo la campagna vaccinale che su ospedalizzazioni e decessi ha dimostrato di avere una indubbia efficacia non è un attentato alla libertà e alla democrazia: è il tentativo di impedire scenari che nessuna attività produttiva sarebbe più in grado di sopportare e che sarebbero a loro volta una minaccia alla libertà. Purché, ovviamente, non si immagini di imporre con una mano il green pass e con l’altra di autorizzare le manifestazioni dei gay pride o le sfilate del pullman della nazionale per le strade del centro di Roma.

E’ questa la ragione per la quale, al di là del mio dovere di legislatore, ai dibattiti sul covid solitamente mi sottraggo. Perché nell’atteggiamento quasi teologico degli uni e degli altri – nell’acrimonia di chi è passato dal “vietato vietare” alla smania di un controllo sociale parossistico e nella supponenza di chi ritiene che uno Stato possa infischiarsene di una pandemia o possa non tentare di prevenirne gli effetti per non gravare ulteriormente su un sistema economico già pesantemente provato – fatico a scorgere qualsiasi traccia di quel pragmatismo e di quel senso della realtà che dovrebbero invece orientare le scelte in un frangente così difficile.

Non credo che in questo momento ci si possa porre altri obiettivi che non siano quelli di scongiurare qualsiasi nuova chiusura delle attività produttive e di impedire nuove escalation pandemiche a danno della vita dei nostri cittadini. Su quale sia il modo migliore per convivere con il virus senza fermare la ripartenza dell’Italia bisognerà confrontarsi attentamente in questi giorni al fine di spingere sulla profilassi preventiva, badando a ogni dettaglio che potrà fare la differenza e sapendo già che qualche soluzione andrà adottata.

Per essere più espliciti: se con qualche meccanismo antipatico ma ben calibrato si riuscirà a spingere tante persone a vaccinarsi, contribuiremo a tenere il servizio sanitario al riparo dall’incidenza grave di nuove ondate e potremo pretendere che ci si lasci definitivamente alle spalle il numerino dei positivi, aiutando non poco la stabilità delle prospettive di ripresa economica. Ma sarebbe bene che tanto i libertari ideologici quanto i maniaci del controllo sociale alzassero lo sguardo dal proprio ombelico e lo rivolgessero a un Paese allo stremo che ha bisogno di risollevarsi senza lo spettro di una nuova chiusura.